LE VERITA’ COPERTE
ovvero “ CUI
PRODEST ? “
Ci sono in
Italia molte , troppe “ verità coperte “
da interessi oscuri , ma palesemente
criminali , da sporchi interessi politici e
istituzionali , da comportamenti
omertosi o di complicità , da
atteggiamenti ipocriti e mistificatori.
Verità che riguardano fatti drammatici e
tragici della nostra storia recente e anche
della nostra quotidianità , sistematicamente seppellite da cumuli di falsità e depistaggi , anche a
livelli istituzionali.
Una pletora
di inchieste giudiziarie e di processi penali
non sono riusciti a dipanare la coltre fitta che avvolge e nasconde i
veri mandanti dei delitti più efferati , che hanno
insanguinato il suolo del nostro Paese e ne hanno profondamente offeso
la dignità , attraverso l’estremo
sacrificio di tanti uomini e
donne , onesti servitori dello Stato, nonché di
comuni cittadini , vittime di
menti e di mani
stragiste.
Dal delitto
di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta , alle stragi di Capaci e di via
D’Amelio , con le morti atroci dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino , insieme alle persone della loro scorta , che li accompagnavano . L’uccisione , una vera e
propria esecuzione mafiosa, del Generale Dalla Chiesa e sua moglie , quella del
giudice Livatino e di Rocco Chinnici ,
come di tanti altri eroici servitori dello Stato. Una sequenza
di atti cruenti , tutti
qualificabili come “terroristici “
per la loro efferatezza e
per il disegno sovversivo
, che li ha contraddistinti .
Il primo , concepito ed eseguito per il sovvertimento dell’ordine democratico
e gli altri due , come segno
tangibile della sopraffazione e superiorità
del potere mafioso nei confronti
della legalità e
della giustizia..
Uno scenario
tragico , quello della uccisione
di Aldo Moro che , ritenuto
con finalità “destabilizzanti “ , parrebbe essere
stato paradossalmente inutile ,
visto che a seguito della uccisione
dell’uomo politico statista , non
vi è stato alcun sovvertimento del Sistema
politico-istituzionale , ma che in effetti
invece è venuto a rivelarsi essere stato
il risultato di un
disegno volto alla “ stabilizzazione “ del Sistema
stesso .
Così
come le tragiche uccisioni dei due
magistrati , Falcone e Borsellino , e
degli operatori della giustizia , che
avrebbero dovuto scatenare
reazioni imponenti da
parte degli Organi
dello Stato , con risultati
di una messa
in ginocchio definitiva del sistema mafioso e criminale , ma che invece hanno
visto e vedono
una continuità del
potere del sistema mafioso stesso , resosi più
forte attraverso
trasformazioni “camaleontiche “ e
complicità nell’ambito delle
stesse istituzioni pubbliche
e dello Stato.
Cosa rimane
? Deprecazione e incredulità
popolare di fronte a tanta ipocrisia , a livello politico-istituzionale
, manifestata ogni volta con false cerimonie
ufficiali di commemorazione , che continuano ad offendere il
diritto ad una Verità , anzi
a più Verità ,
a tutt’oggi dolosamente
occultate , e ancora non volute rivelare da qualcuno che continua
a stare oppure ha avuto incarichi
ad alti
livelli istituzionali e ne
ha conoscenza e ne ha segretamente anche le prove
documentali .
Scritto da Enza Galluccio
Pubblicato: 22 Luglio 2017
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Di Enza Galluccio*
“Paolo Borsellino è stato in grado di unire la
saggezza all’umiltà” con queste parole prese da Antonino Caponnetto, l’ex
magistrato e Presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione,
Ferdinando Imposimato, ha aperto il suo acceso intervento alla commemorazione
per il 25esimo anniversario della strage di via D'Amelio, che ha lasciato
impietrito il pubblico, soprattutto chi conosce meglio i fatti e continua a
ricercare le risposte ancora mancanti.
Imposimato conobbe Falcone e Borsellino fin dal 1980,
perché come loro si era interessato a Michele Sindona, il banchiere che si
occupava di trasferire soldi illeciti in porti sicuri, anche per conto della
Chiesa, tanto da essere definito “il banchiere di Dio”.
In quegli anni, a Roma, Imposimato indagava su Sindona
perché aveva organizzato un falso sequestro per apparire vittima delle Brigate
Rosse, mentre Falcone e Borsellino, a Palermo, lo indagavano per altri delitti
di stampo mafioso. Dall’intrecciarsi di queste indagini era nata l’idea di
costituire un “super pool”, che aveva permesso a molti magistrati che si
occupavano di mafia di incontrarsi ogni mese in diverse città d’Italia, per
coordinare e rendere più efficace l’azione della magistratura contro la
criminalità organizzata. La capacità d’indagine, quindi, si era moltiplicata
grazie allo scambio d’informazioni e d’idee. Per Imposimato, tutto ciò aveva
creato una grande preoccupazione da parte dei politici.
Tuttavia, Scalfaro “che prendeva cento milioni
al mese dai servizi segreti” e “aveva promesso di fare la legge sui pentiti,
che poi non ha fatto” si era dovuto comunque confrontare con l’esplosione del
pentitismo che ormai dilagava. Tommaso Buscetta aveva cominciato a parlare,
denunciando accordi tra mafiosi, imprenditori e politici; anche questo era
fonte di grande preoccupazione, soprattutto per quella politica coinvolta nel
malaffare.
E così … sono cominciati i primi delitti, a partire da
Boris Giuliano, ucciso per le sue indagini su Sindona, il primo di una lunga
serie.
A questo punto dell’intervento è scattata
l’inevitabile domanda “Chi ha voluto la morte di Falcone e Borsellino?” Per il
Presidente onorario la risposta c’è già ed è nei documenti.
I due magistrati avevano indirizzato le proprie
indagini su un’organizzazione sovversiva mondiale pericolosissima. “Io non sono
pazzo!” ha esclamato Imposimato, specificando che quell’organizzazione si
chiamava Gladio, Stay-behind.
Queste informazioni sarebbero state anche dentro i
diari di Falcone. In quelle pagine, fin dal 1990, si legge che Falcone aveva
capito che Gladio era implicata negli omicidi di Piersanti Mattarella e di Pio
La Torre.
Secondo quanto appreso da Caponnetto, il Giudice ne
aveva parlato con il procuratore Giammanco per convincerlo a seguire questa
pista, sulla base della richiesta degli avvocati di parte civile, ma non aveva
ottenuto risultati. Anche Caponnetto aveva ricevuto quelle richieste da Falcone
e Borsellino, ma non era voluto intervenire perché Gladio era una struttura
“potentissima” e, secondo Imposimato, ha le responsabilità di quasi tutti gli
omicidi politico-mafiosi italiani.
Nell’intervento del 25 giugno in memoria di Falcone,
Paolo Borsellino aveva detto di aver saputo, dall’amico e magistrato appena
ucciso, delle cose che avrebbe riferito soltanto nelle sedi opportune. A quel
tempo, il procuratore di Caltanissetta, con l’incarico di indagare sulla strage
di Capaci, era Salvatore Celesti.
In quell’occasione, Borsellino aveva anche detto
un’altra cosa importante, che il contenuto del diario di Falcone, da poco reso
pubblico, corrispondeva alla verità .
Con quelle parole il Giudice non si riferiva alle
indagini sugli appalti come, secondo Imposimato, si vorrebbe far credere, ma
piuttosto a quelle sull’organizzazione eversiva Gladio, dichiarata illegittima
anche dalla Commissione Stragi.
Tale organizzazione era guidata dalla Cia, che
controllava anche i Servizi italiani e si era servita di questi, oltre che
della mafia e dei terroristi, per compiere tutte le stragi italiane da Portella
della Ginestra in poi. Per Imposimato, come ha riportato anche in un suo libro,
queste stragi fanno parte di una “strategia della tensione” a livello mondiale.
Vi erano e vi sono, dunque, collegamenti tra la Cia,
la massoneria e una parte del Vaticano per “condizionare lo sviluppo della
democrazia in Italia”.
Il presidente Imposimato ha specificato di aver potuto
ricostruite la storia della loggia massonica grazie ad un documento del 1967,
che fa parte della requisitoria del pm Alessandrini.
Quando Borsellino disse che il contenuto del diario di
Falcone, pubblicato allora da Liliana Milella su “Il Sole 24 ore”, era vero,
creò le cause per la sua “immediata” uccisione, ne accelerò i tempi.
“Questo non significa che la mafia non c’entra”, ha
continuato Imposimato, precisando che tutti i nomi indicati da Spatuzza sono
realmente coinvolti nella strage di via D’Amelio, così come lo sono i servizi
segreti al servizio della Cia “definita in questo documento (come) un mostro
incontrollabile”. Essa disponeva di 500 milioni di dollari all’anno e con
questi “corrompeva chiunque; corrompeva uomini politici, e corrompeva i
sindacati, e corrompeva la maggioranza e l’opposizione”.
Secondo quest’analisi, la Cia ha controllato il nostro
Paese attraverso una penetrazione capillare, disponendo di una propria
base nella Gladio, situata in Sardegna.
Vito Ciancimino era un gladiatore e in
quest’organizzazione era coinvolto anche Totò Riina.
Secondo uno studio fatto da una tesista, di cui
Imposimato era relatore, Riina sarebbe stato un uomo della Cia. Quest’aspetto
era stato confermato anche dalle parole di Badalamenti.
Poi, il Presidente onorario ha dichiarato, alzando il
tono della voce, “Moro è stato vittima di un complotto politico infame della
Gladio” e ha proseguito “purtroppo erano implicati anche qui i servizi che
sapevano dov’era la prigione e non hanno liberato Aldo Moro, è una vergogna!”.
“Finché ci sono uomini come Nino Di Matteo e Roberto
Tartaglia, noi abbiamo la possibilità di andare avanti seguendo la strada
giusta”, ha detto ancora Imposimato, aggiungendo un’ulteriore drammatica
informazione: in via Sicilia a Roma c’erano gli uffici della Gladio, della Cia,
della OSS e, addirittura della P2, uno accanto all’altro. Enti che si sarebbero
dovuti combattere tra loro mentre, invece, erano complementari e avevano
l’unico scopo di condizionare il nostro Paese eliminando gli emblemi della
legalità come Borsellino e Falcone.
Tinebra, Celesti e tutti gli altri “erano dei
mascalzoni”, per Imposimato è necessario avere il coraggio di denunciare il Csm
quando sbaglia e affida le nomine a magistrati subalterni al potere politico;
negli uffici devono esserci dei “magistrati che hanno fatto i magistrati, non
persone che sono state al ministero”.
Questo lungo e sconvolgente intervento del presidente
Imposimato si chiude con parole di speranza, sostegno ed esempio per i giovani.
Via D’Amelio applaude, ma molti volti sono
segnati, e non solo dalla stanchezza.
CIA, BILDERBERG, BR, BRITANNIA ...E
RENZI : ECCO A VOI LA VERA STORIA ITALIANA
Il
primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi,
futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino
Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande
Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana, temutissima da
Germania e Francia. E’ il 1981: Andreatta propone di sganciare la Banca
d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo: impedire alla banca centrale
di continuare a finanziare lo Stato, come fanno le altre banche centrali
sovrane del mondo, a cominciare da quella inglese. Il secondo colpo, quello del
ko, arriva otto anno dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si
gioca la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza
industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi
accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo
assetto europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi,
l'Italia.
A Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della
“casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare
l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.
E’ la drammatica ricostruzione di Nino Galloni, già docente universitario,
manager pubblico e alto dirigente di Stato. All’epoca, nel fatidico 1989,
Galloni era consulente del governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il
primo statista europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la
riunificazione tedesca. Non era “provincialismo storico”: Andreotti era al
corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporvisi, finche potè. Poi a
Roma arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col
ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco. Galloni
si era appena scontrato con Mario Monti alla Bocconi e il suo gruppo aveva
ricevuto pressioni daBankitalia, dalla Fondazione Agnelli (facenti anche loro
parte del gruppo Bilderberg) e da Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva
per indurre il governo a metterlo fuori gioco. «Ottenni dal ministro la
verità», racconta l’ex super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di
pezzi di carta perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul
“pizzino”, scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche dalla
Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo
facendo?”. Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa».
Questa, riassume Galloni, è l’origine della “inspiegabile” tragedia nazionale
nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima atlantici e
poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due episodi chiave. Il
primo è l’omicidio di Enrico Mattei, stratega del boom industriale italiano grazie alla
leva energetica propiziata dalla sua politica filo-araba, in competizione con
le “Sette Sorelle”. E il secondo è l’eliminazione
di Aldo Moro, l’uomo del compromesso storico col Pci
di Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione eversiva
fondata da Renato Curcio ma leBr di Mario Moretti, «fortemente collegate con i
servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani e israeliani». Il
leader della Dc era nel mirino di killer molto più potenti dei neo-brigatisti:
«Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo
prima» (Kissinger è anche l'assassino di Salvador Allende).
Tragico preambolo, la strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo
“Petrolio” aveva denunciato i mandanti dell’omicidio Mattei, a lungo presentato
come incidente aereo. Recenti inchieste collegano alla morte del fondatore
dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro. Probabilmente, De Mauro
aveva scoperto una pista “francese”: agenti dell’ex Oas inquadrati dalla Cia
nell’organizzazione terroristica “Stay Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero
sabotato l’aereo di Mattei con l’aiuto di manovalanza mafiosa. Poi, su tutto, a congelare la democrazia italiana avrebbe provveduto la strategia della
tensione, quella delle stragi nelle piazze.
Alla fine degli anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione
definitiva dell’Italia come competitor strategico: Ciampi, Andreatta e De Mita,
secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale pur di sottrarre
potere alla classe politica più corrotta d’Europa. Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il paese è in
crisi finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a
fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto,
emettendo moneta destinata all’investimento pubblico. Chiuso il rubinetto della
lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli interessi (da pagare a
quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito pubblico esploderà fino a
superare il Pil. Non è un “problema”, ma esattamente l’obiettivo voluto:
mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione strategica di spesa
pubblica a costo zero per i cittadini, a favore dell’industria e
dell’occupazione. Degli investimenti pubblici da colpire, «la componente più
importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali,
l’energia e i trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale».
Al piano anti-italiano partecipa anche la grande industria privata, a partire
dalla Fiat, che di colpo smette di investire nella produzione e preferisce
comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li acquista più, i
tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in un ghiottissimo
business privato. L’industria passa in secondo piano e – da lì in poi – dovrà
costare il meno possibile. «In quegli anni la Confindustria era solo presa
dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti, che poi
avrebbero prodotto la precarizzazione» (il piano lo stà ultimando Renzi con il
suo Job Acts). Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di quello che è
lo sviluppo industriale». Risultato: «Perdita di valore delle
imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto».
Dati che parlano da soli. E spiegano
tutto: «Negli anni ’80 – racconta Galloni – feci una ricerca che dimostrava che
i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano
la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività
produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i
titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più
facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi.
Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione».
Alla caduta del Muro, il potenziale italiano è già duramente compromesso dal
sabotaggio della finanza pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro paese –
“promosso” nel club del G7 – era ancora in una posizione di dominio nel
panorama manifatturiero internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di grosso dal
punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda Galloni: «Bastavano
alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici». E invece,
si corre nella direzione opposta: con le grandi privatizzazioni strategiche,
negli anni ’90 «quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale»,
il “motore” di sviluppo tanto temuto da tedeschi e
francesi.Deindustrializzazione: «Significa che non si fanno più politiche
industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani: quando era ministro
dell’industria «teorizzò che le strategie industriali non servivano». Si
avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione col solito
Andreatta e Giuliano Amato. Lo smembramento di un colosso mondiale:
Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo,
Alitalia, Sme (alimentare), nonché la BancaCommerciale Italiana, il Banco di
Roma, il Credito Italiano.
Le banche, altro passaggio decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce
la “banca universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del
credito all’economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle attività
finanziarie peculative. Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio
sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario di oggi. In confronto,
dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini: nel caso delle perdite delle
banche stiamo parlando di tre-quattromila trilioni. Un trilione sono mille
miliardi: «Grandezze stratosferiche», pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono
cose spaventose». La frana è cominciata nel 2001, con il crollo della
new-economy digitale e la fuga della finanza che l’aveva sostenuta, puntando
sul boom dell’e-commerce. Per sostenere gli investitori, le banche allora si
tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i
rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della “catena di
Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia” nell’imminente
“ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da «centri studi, economisti,
osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri paga».
Quindi, aggiunge Galloni, siamo andati avanti per anni con queste operazioni di
derivazione e con l’emissione di altri titoli tossici. Finché nel 2007 si è
scoperto che il sistema bancario era saltato: nessuna banca prestava liquidità
all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose, cioè speculazioni in
perdita. Per la prima volta, spiega Galloni, la massa dei valori persi dalle
banche sui mercati finanziari superava la somma che l’economia reale – famiglie
e imprese, più la stessa mafia – riusciva ad immettere nel sistema bancario.
«Di qui la crisi di liquidità, che deriva da questo: le perdite superavano i
depositi e i conti correnti». Come sappiamo, la falla è stata provvisoriamente
tamponata dalla Fed, che dal 2008 al 2011 ha trasferito nelle banche –
americane ed europee – qualcosa come 17.000 miliardi di dollari, cioè «più del
Pil americano e più di tutto il debito pubblico americano».
Va nella stessa direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati –
il “quantitative easing” della Bce di Draghi, che ovviamente non risolve la
crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche
al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite». Il profitto non deriva dalle
performance economiche, come sarebbe logico, ma dal numero delle operazioni
finanziarie speculative: «Questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di
dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare
a ramengo». Non falliscono solo perché poi le banche centrali, controllate
dalle stesse banche-canaglia, le riforniscono di nuova liquidità. A monte: a
soffrire è l’intero sistema-Italia, da quando – nel lontano 1981 – la finanzia
pubblica è stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia. Un
percorso suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale
dell’ingresso nell’Eurozona, che toglie allo Stato la moneta ma anche il potere
sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il Fiscal Compact e
il pareggio
di
bilancio.
Per l’Europa “lacrime e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene prima
dello sviluppo. «Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare
il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è
la ripresa». E in piena recessione, ridurre la spesa pubblica significa solo arrivare
alla depressione irreversibile. Vie d’uscita? Archiviare subito gli specialisti
del disastro – da Angela Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica europea:
bisogna tornare alla sovranità monetaria, dice Galloni, e cancellare il debito
pubblico come problema. Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10
volte il Pil. Non è vero che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il
problema è che il debito, semplicemente, non va ripagato: «L’importante è
ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più bassi dei tassi di
crescita». A quel punto, il debito non è più un problema: «Questo è il modo
sano di affrontare il tema del debito pubblico». A meno che, ovviamente, non si
proceda come in Grecia, dove «per 300 miseri miliardi di euro» se ne sono persi
3.000 nelle Borse europee, gettando sul lastrico Il popolo greco.
Domanda:
«Questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia ma anche
contro gli altri popoli e paesi europei? Chi comanda effettivamente in questa
Europa se ne rende conto?». Oppure, conclude Galloni, vogliono davvero «raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di
sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come
avvenuto in Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione del
patrimonio nazionale, conquista di guadagni senza lavoro. Un piano criminale:
il grande complotto dell’élite mondiale. «Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei
30, dei 10, gli “Illuminati di Baviera”: sono tutte cose vere», ammette l’ex
consulente di Andreotti. «Gente che si riunisce, come certi club massonici, e
decide delle cose». Ma il problema vero è che «non trovano resistenza da parte
degli Stati». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere
di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto
ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale». Gli Stati sono stati indeboliti e poi addirittura
infiltrati, con la penetrazione nei governi da parte dei super-lobbysti, dal
Bilderberg agli “Illuminati”. «Negli Usa c’era la “Confraternita dei Teschi”,
di cui facevano parte i Bush, padre e figlio, che sono diventati presidenti
degli Stati Uniti: è chiaro che, dopo, questa gente risponde a questi gruppi
che li hanno agevolati nella loro ascesa».
Non abbiamo amici. L’America avrebbe inutilmente cercato nell’Italia una sponda
forte dopo la caduta del Muro, prima di dare via libera (con Clinton) allo
strapotere di Wall Street. Dall’omicidio di Kennedy, secondo Galloni, gli Usa
«sono sempre più risultati preda dei britannici», che hanno interesse «ad
aumentare i conflitti, il disordine», mentre la componente “ambientalista”, più
vicina alla Corona, punta «a una riduzione drastica della popolazione del
pianeta» e quindi ostacola lo sviluppo, di cui l’Italia è stata una straordinaria
protagonista. L’odiata Germania? Non diventerà mai leader, aggiunge Galloni, se
non accetterà di importare più di quanto esporta. Unico futuro possibile: la
Cina, ora che Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato
interno a quello dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi settori
della propria manifattura, puntando ad affermare il made in Italy d’eccellenza
in quel mercato, 60 volte più grande. Armi strategiche potenziali: il settore
della green economy e quello della trasformazione dei rifiuti, grazie a
brevetti di peso mondiale come quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.
Prima, però, bisogna mandare a casa i sicari dell’Italia – da Monti alla Merkel
– e rivoluzionare l’Europa, tornando alla necessaria sovranità monetaria. Senza
dimenticare che le controriforme suicide di stampo
neoliberista che hanno azzoppato il paese sono state subite in silenzio anche
dalle organizzazioni sindacali. Meno
moneta circolante e salari più bassi per contenere l’inflazione? Falso: gli Usa
hanno appena creato trilioni di dollari dal nulla, senza generare spinte
inflattive. Eppure, anche i sindacati sono stati attratti «in un’area di
consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981».
Passo fondamentale, da attuare subito: una riforma della finanza, pubblica e
privata, che torni a sostenere l’economia. Stop al dominio antidemocratico di
Bruxelles, funzionale solo alle multinazionali globalizzate. Attenzione: la
scelta della Cina di puntare sul mercato interno può essere l’inizio della fine
della globalizzazione, che è «il sistema che premia il produttore peggiore,
quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che
non rispetta l’ambiente né la salute». E naturalmente, prima di tutto serve il
ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato democratico
sovrano. Imperativo categorico: sovranità finanziaria per sostenere la spesa
pubblica, senza la quale il paese muore. «A me interessa che ci siano spese in
disavanzo – insiste Galloni – perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione,
puntare al pareggio di bilancio è un crimine».