NOTE
SULLA SITUAZIONE ECONOMICA
E SOCIALE IN
ITALIA E PROPOSTE
PER LA CRESCITA
E LO SVILUPPO
Economia ,
Finanze , Lavoro ,
Criminalità
CRESCITA ECONOMICA
E SOCIALE ,
“ PAGARE DI
MENO PER PAGARE
TUTTI “
Per innescare una
vera e propria , reale crescita economica
in Italia , è assolutamente
necessario ricreare le condizioni favorevoli agli investimenti produttivi , di
beni e servizi , alle possibilità e opportunità di lavoro e di occupazione; cioè , provvedere a ridurre il più possibile il peso degli oneri fiscali che gravano sulle
attività imprenditoriali , nella misura in cui tali oneri vengono a costituire un peso oggettivamente non sostenibile in funzione dello sviluppo e della
produttività dell’impresa stessa , in relazione alle condizioni
socio-economiche territoriali e ambientali nelle quali l’impresa medesima si
trova ad operare .
Pertanto ,
qualsiasi impresa produttiva di beni e di servizi non potrà mai avviare e
sviluppare la propria attività se viene
impedita da persecutori interventi criminali estorsivi , da gravi oneri fiscali , da mancanza di sostegno
da parte di istituti bancari , dei quali
alcuni coinvolti in attività speculative ad alto rischio e in gravi
situazioni di bilancio negative , per
crediti non riscossi , da ostacoli burocratici
e legislativi , da diffusi fenomeni di illegalità nel mondo degli
appalti pubblici , in materia di evasione fiscale , di corruzione e
concussione, tutti fattori negativi che
incideranno non solo sulla sopravvivenza delle imprese , ma anche incideranno
sul problema sociale ,in materia di lavoro e di occupazione ,sul funzionamento
dei servizi pubblici , sullo stato sociale dei cittadini .
A tali fattori ,
può aggiungersi anche quello riguardante le condizioni economiche , di reddito e di lavoro della popolazione ,
anch’esse rese difficili a causa della eccessiva onerosità e iniquità del
sistema fiscale , delle imposte e tasse
, dei non sufficienti livelli di retribuzione
da lavoro , pubblico e privato , che determinano inevitabilmente
diminuzione dei consumi , situazioni di stagnazione economica , recessione ,
sfiducia ad investire , alti livelli di disoccupazione specie giovanile , più
gravi in zone del meridione ,dove la crisi è più pesante, e quindi un complesso di fattori negativi
sui valori percentuali del Prodotto
Interno Lordo del Paese , ai quali si associano aumenti di spesa pubblica ,
mancanza di progettualità politica in materia industriale e tecnologica e
scientifica e di ricerca , mancata o
troppo scarsa crescita economica , aumento del debito pubblico. In definitiva , crisi sempre più grave del
sistema socio-economico del Paese .
Rimedi possibili , pur sempre relativi , onde evitare
peggioramenti della situazione economica e sociale del Paese , possono
ricercarsi attraverso :
1 ) Una vera ,
reale “ riforma del sistema fiscale “
, oltre che , naturalmente , attraverso una seria riforma legislativa e
burocratica nei rapporti fra Stato e mondo delle imprese, e cittadini
contribuenti ; attraverso una seria e
decisa lotta contro ogni forma di illegalità , di evasione fiscale , contro
ogni forma di attività illecita , contro la
criminalità organizzata.
2 ) Una ripresa degli “ investimenti pubblici “, in opere pubbliche di ristrutturazione ,
di manutenzione , di ammodernamento per quanto attiene alle strutture adibite a
servizi pubblici e al bene comune , sul territorio e per la tutela
dell’ambiente, per il risparmio energetico ,etc…
Riguardo alla “riforma del sistema fiscale , con la
esenzione da imposte per redditi sino a mille euro , e con
l’applicazione
puntuale del principio costituzionale di imposizione fiscale basato sul criterio di progressività
( art.53 Cost.) , cioè sulla
effettiva capacità contributiva di chi percepisce redditi e rendite finanziarie , incidendo maggiormente riguardo alle aliquote sui redditi più alti e rendite più elevate.
Poi si potrebbe
seguire il criterio del “ pagare di meno per pagare tutti “,
non tanto abbassando il valore percentuale delle aliquote fiscali nei confronti di tutti i percettori di
reddito , quanto invece consentendo di
poter “ detrarre “ dalle imposte che vengono applicate in
occasione di dichiarazione dei redditi , somme con valori percentuali significativi e diversi ( es. 90 , 80 , 70 ,
60 % ) , a seconda delle spese sostenute per taluni importanti
servizi , per utenze di acqua , luce , gas , beni di carattere sociale , riguardanti l’affitto della casa di
abitazione, spese sanitarie , spese per l’istruzione , per i beni di prima
necessità , alimentari , abbigliamento ,
per acquisto di beni strumentali necessari al miglioramento della
produzione imprenditoriale , spese per
ristrutturazione case e impianti energetici , spese di riparazione in
appartamento di impianti , apparecchi , elettrici , idraulici , per acquisto di elettrodomestici , per l’IVA
…etc.. ;
Queste misure consentirebbero una drastica riduzione della evasione fiscale , e
del “
lavoro nero “ trovando l’utente o
acquirente più conveniente farsi rilasciare lo scontrino , la fattura
fiscale , che sarà utilizzata per il diritto alla relativa detrazione all’atto
della dichiarazione dei redditi.
In definitiva , un sistema volto a ripristinare migliori
condizioni e facilitazioni nel mondo dei rapporti commerciali , della domanda e
dell’offerta di beni e servizi , nell’ambito delle possibilità di lavoro
e di avviamento di impresa , quindi un impulso effettivo e reale
alla crescita economica e allo sviluppo sociale del Paese , attraverso un risultato positivo riguardo al bilancio pubblico statale , posto che
le minori entrate ricevute per via delle elevate detrazioni applicate ,
sarebbero ben compensate con maggiori entrate ottenute dalla forte riduzione
della evasione fiscale , nonché del lavoro nero , contrastato da maggiori
incentivi e da una maggiore trasparenza dei rapporti di lavoro fra imprese e lavoratori , una politica di
governo più equa e giusta , attraverso una concreta ed efficiente lotta alla criminalità organizzata ,
efficaci interventi per contrastare la
evasione e la elusione fiscale , la corruzione , le illegalità nei rapporti
fra pubblica amministrazione e cittadini, con la eliminazione di agevolazioni
particolari per determinate caste , con la possibilità di corrispondere un reddito sociale minimo ai cittadini sprovvisti di
redito .
Al
fine di ottenere , quindi , più elevato “ prodotto interno lordo “ , maggiore
trasparenza e controllo della “ spesa
pubblica “ , riduzione del “ deficit
pubblico “ ( rapporto fra entrate e uscite ) , abbassamento dei livelli del “
debito pubblico nazionale “ , incrementi nel mondo della produzione e del
lavoro determinante e importante “ crescita economica e sviluppo sociale “ del Paese .
IL DEBITO PUBBLICO
Cosa
è il debito pubblico ? Chi è ,
chi sono i creditori ?
Il
debito pubblico è un frutto avvelenato
prodotto da un sistema finanziario di abusi , di tipo usuraio , che
si nutre di criteri speculativi del debito pubblico sulla base e in forza di
calcoli sugli interessi progressivi imposti ad nutum da gruppi e società ,che
stanno mettendo in ginocchio le economie reali di molti Paesi , impedendo ogni
tentativo di ripresa economica fondata su investimenti produttivi reali e
sociali , soggiogando politiche economiche alla speculazione finanziaria ,che
arricchisce a dismisura gruppi di potentati a livello internazionale e crea
situazioni e condizioni popolari di miseria e povertà ,sempre più vaste e
drammatiche nel mondo.
Il debito pubblico lo possiamo
definire come il debito che ha uno Stato nei confronti del settore privato e
dell’economia, compreso famiglie, imprese, banche di credito ordinario e/o
della Banca Centrale. Dall’altro lato, il settore privato e/o la Banca Centrale
sono creditori nei confronti dello Stato.
In breve, il debito pubblico si crea quando uno Stato sostiene spese per importi
superiori alle entrate.
Attenzione: Lo stato non può emettere e
stampare più denaro per coprire le spese. Di conseguenza è costretto a emette
Titoli, obbligazioni del Tesoro che, poi vende tramite asta pubblica. Chi le
acquista le acquista ad un certo tasso di interesse all’anno.
Il fatto è che tutto ciò deve essere tenuto sempre
sotto controllo, e quando la spesa pubblica aumenta in modo esponenziale, e non
è compensata da una crescita delle imposte adeguate, allora il debito pubblico
diventa un problema molto serio e preoccupante.
IL DISAVANZO
PUBBLICO
Per disavanzo
pubblico o o deficit pubblico si intende la differenza annuale (negativa)
che intercorre tra le entrate di uno stato e le spese da esso sostenute.
Supponendo che in un anno lo stato incassi 50 milioni
e ne spende 100, la differenza, pari a – 50 milioni, equivale al disavanzo
pubblico. Se il debito pubblico anno per anno continua ad aumentare
facendo aumentare anche il disavanzo pubblico, succede che il debito
cresce, fino a diventare una spesa difficoltosa da rifinanziare.
Ogni anno il deficit pubblico va ad aggiungersi al
debito pubblico del periodo precedente. In questo modo non si fa altro che
aumentare il disavanzo pubblico.
E’ bene chiarire un altro aspetto legato al debito pubblico; lo Stato deve
finanziare la spesa per l’anno in corso ovvero per consumi e/o investimenti
pubblici in 2 modi:
- tramite entrate fiscali;
- tramite emissioni di titoli di stato.
Nel primo caso, lo stato prevede con le entrate
fiscali dell’anno in corso inerenti a tasse ,
etc , effettui la spesa per un determinato periodo. Se questo fosse
realmente attuabile, lo stato non avrebbe un debito , ma si parlerebbe di
bilancio dello stato chiuso in pareggio. Ovvero le entrate corrispondono alle
uscite.
Nel secondo caso, invece, si prevede che uno Stato, al
fine di finanziare le spese correnti, emette dei titoli. Questo gli permette di
procurarsi la liquidità necessaria che non deriva da un’entrata fiscale, ma
attraverso un prestito derivante dal settore privato o anche dalla Banca
Centrale.
Questo secondo caso, quello al momento attuale in
Italia, prevede per uno Stato che le entrate fiscali non siano sufficienti a
finanziare la spesa corrente. Quindi ne deriva che la liquidità di cui ha
bisogno la deve per forza di cose procurare con l’emissione di obbligazioni.
In sostanza, lo Stato emette titoli
pubblici, ovvero titoli BTp o Bot attraverso cui lo Stato riesce
poi ad avere delle entrate al fine di rifinanziare il debito pubblico. Questo
percorso però non è di facile attuazione, ma è ben più complesso di quanto ci
si possa credere. In sostanza è più facile a dirsi che ad applicarsi.
Di conseguenza , attuando le emissioni di titoli di
stato, non avremo altro che un deficit di bilancio, ovvero un valore negativo,
poiché la differenza tra entrate fiscali e spese sarà negativa ; cioè avremo
le spese maggiori dell’entrate.
Nella situazione attuale italiana, parte della spesa
pubblica inerente all’anno (01 Gennaio – 31 Dicembre) viene finanziata con
le entrate fiscali; un’altra parte
invece viene finanziata con l’emissione
di titoli di debito pubblico.
Oggi in tanti sostengono che le generazioni future
saranno quelle che dovranno pagare le imposte con le quali verranno corrisposti
gli interessi a tutti i titolari di obbligazioni, ovvero a tutti coloro che
detengono titoli di debito pubblico.
In sostanza, il debito pubblico è definito
come un credito del settore privato nei confronti dello Stato. Pertanto,
nell’economia reale vi sono creditori che ricevono benefici dal possesso dei
titoli pubblici.
Al momento però possiamo solo costatare che sono le
classi più deboli ad essere penalizzate. Queste infatti sono tassate con un
imposizione più gravosa rispetto e in proporzione ai redditi percepiti.
Il debito pubblico italiano , attualmente , ammonta a circa duemila e duecento miliardi
di euro ed è in crescita continua.
Ma chi detiene il debito
pubblico italiano? La tabella che segue
è interessante per verificare sia le cifre in oggetto, sia le dinamiche sul
debito stesso:
DEBITO MAGGIO 2012
|
DEBITO MAGGIO
2013
|
|||||
BANCHE
|
931,55
|
1047,01
|
||||
PRIVATI (FAMIGLIE E
IMPRESE)
|
257,7
|
199,99
|
||||
BANCA D’ITALIA
|
92,948
|
98,46
|
||||
TOTALE ITALIA
|
1.282,198
|
1.345,452
|
||||
DETENTORI ESTERI
|
693,499
|
729,107
|
||||
TOTALE DEBITO
|
1.982,177
|
2.074,558
|
Fonte: Banca d’Italia (in miliardi di euro)
ITALIA. Anche se il debito
italiano è stato accumulato in diversi anni, il vero problema è
sorto con la crisi economica del 2008. Da allora l’economia in Italia
non si è più ripresa. È l’unico paese del G7 che non è ancora
riuscito a tornare ai livelli ante-crisi. Dal momento che i creditori sono
soprattutto interni al paese (soprattutto banche) e il principale debitore è lo
Stato, c’è chi teme lo scoppio di una crisi bancaria se il governo italiano non
fosse in grado di adempiere ai propri obblighi. Il debito totale del paese
è di circa il 132% del PIL.
Il 2007 resta scolpito negli annali economici
dell’Italia, così come del resto dell’Occidente, come l’ultimo anno prima dello
scoppio della più grave crisi finanziaria globale dai tempi della Grande
Depressione. Se la maggior parte delle economie fatica ancora a tornare ai
livelli di ricchezza toccati allora, con poche e illustri eccezioni (USA, Regno
Unito e Germania), l’Italia è ben
lontana dall’essersi ripresa, tanto che il suo pil è oggi di quasi il 9% in
meno di quello del 2007, tenuto conto dell’inflazione. Ne ha risentito il debito pubblico ( vds nota in calce ) , che non solo è passato da
poco più del 103% di quell’anno al 133% di fine 2015, ma esso è anche cresciuto in maniera abnorme in valore
assoluto, salendo nel contempo da 1.599 a 2.211,85 miliardi del novembre
scorso. Il dato di dicembre, quello definitivo dell’ultimo esercizio
disponibile, dovrebbe, però, essersi attestato al di sotto dei 2.200 miliardi, in
virtù dell’avanzo finanziario, che tipicamente il Tesoro registra a fine anno.
L’enorme
percentuale di debito pubblico italiano è posseduta dalle banche francesi e
dalle banche tedesche. Insieme le istituzioni finanziarie
tedesche e francesi possiedono il 59% del debito pubblico italiano detenuto
all’estero. La Banca centrale europea possiede solo il 13% del debito pubblico.
Ne concludiamo che l’importanza della situazione economica del nostro Stato a
livello europeo è grandemente importante . Un’eventuale ristrutturazione del
debito italiano colpirebbe gravemente tutto il sistema bancario tedesco e
francese e di riflesso ovviamente anche gli Stati, che dovrebbero probabilmente
intervenire per salvare le loro banche o certamente ricapitalizzarle abbondantemente.
Come per i popoli del Terzo Mondo , che sono strozzati dal debito, la stessa cosa avverrà coi popoli
europei, che si indebiteranno senza contropartita
con la Bce per ogni euro messo in circolazione, così come i popoli del Terzo
Mondo si sono indebitati con la Federal Reserve americana per i dollari messi
in circolazione.
Il
debito pubblico italiano attuale è generato dagli alti tassi d’interesse pagati sullo stesso a
partire dal 1981 (anno del divorzio tra la Banca d’Italia ed il Tesoro), che per
onorare il debito lo Stato impone tasse e balzelli di varia natura arrivando ad
una pressione fiscale insopportabile per la popolazione.
Avendo constatato come il 90% del debito non sia in mano
a famiglie od imprese italiane, possiamo affermare che ogni 100 euro di tasse
pagate solo 10 rientrano al settore famiglie-imprese, mentre 90 vanno ad ingrassare la rendita bancaria (che
detiene i BTP).
Il sistema IF
(Imprese-Famiglie) paga 100 e ne rientra in circolo appena 1/10. E’ la fine. Il
prolungarsi di questa condizione in cui il progressivo livello di moneta nel
sistema Imprese-Famiglie decresce, porta alla situazione attuale di profonda depressione, mancanza di domanda
(output gap), chiusura di attività produttive, disoccupazione crescente,
povertà e miseria.
Per alcuni paesi la causa principale dell’alto
livello di indebitamento è stato lo scoppio delle bolle finanziarie
durante i primi anni 2000, che hanno lasciato i contribuenti con i debiti
delle istituzioni finanziarie che, con speculazioni selvagge, avevano
collezionato perdite multi-miliardarie. Per altri paesi, il debito è
invece un problema che arriva da lontano, con radici che affondano in
un passato coloniale o in tassi di interesse esorbitanti sui
rimborsi del debito.
È interessante notare come, in termini monetari assoluti,
gli Stati Uniti detengono il più alto livello di debito, così come la
più grande economia del mondo. Ma per molti altri paesi il confronto tra
produzione economica e debito rende del tutto evidente che gli oneri sul debito
sono in realtà ben al di là dei loro mezzi.
Quando parliamo di debito di uno Stato è importante
distinguere debito pubblico e debito privato che uniti insieme
costituiscono il cosiddetto debito aggregato.
In parole povere il debito pubblico è il debito che
lo Stato contrae con vari creditori che possono essere a loro volta
pubblici o privati per finanziarsi. Il debito privato invece, è quello contratto
da famiglie e aziende che vivono e operano in quel determinato paese
In sostanza sarebbe stata la bolla dei debiti
privati della periferia dell’Eurozona a determinare a partire dal 2009
l’attuale crisi economica. La crisi del debito privato ha coinvolto anche gli
Stati che hanno cercato di salvare le banche in difficoltà a causa del credito
facile, generando l’aumento del debito pubblico.
E’ un po’ quello che è accaduto dall’altra parte
dell’oceano. La crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti alla fine è stata
risolta facendo affidamento sullo Stato.
L’Italia ha un debito totale vicino al 250% del Pil,
formato per più del 130% dal debito pubblico. L’alto livello di debito pubblico
italiano non è dato tanto dall’aumento di quest’ultimo, quando piuttosto alla
forte diminuzione del Pil del Paese al quale il debito pubblico si rapporta.
Al
quindicesimo posto della classifica la Germania
che ha un debito privato maggiore di quello pubblico. Sommando i due debiti il
risultato del paese più virtuoso d’Europa sfiora il 200% del Pil.
Sommando quindi debito pubblico e debito privato
l’Italia nella classifica dei paesi più indebitati si posiziona dopo Portogallo,
Giappone, Belgio, Grecia, Olanda, Spagna, Regno Unito, Francia e Stati Uniti.
La seguente classifica
indica i primi 12 paesi più indebitati del mondo si basa sul
debito pubblico in percentuale sul PIL (Prodotto Interno Lordo).
· GIAPPONE. L’economia giapponese è
quasi ferma dall’inizio degli anni ’90 e il suo debito è del 226% del PIL. Il
governatore della banca centrale giapponese ha avvertito che i livelli estremi
di debito del paese non sono sostenibili.
· ZIMBABWE. Il paese, da oltre 15 anni,
è in ritardo nel ripagare il suo debito al Fondo Monetario Internazionale
e, per questo motivo, non è più ritenuto ammissibile a ricevere altri fondi. Il
suo debito pubblico è stimato al 202% del PIL.
· ST. KITTS AND NEVIS. Anche
se la nazione caraibica ha un indebitamento complessivo di poco più di un
miliardo di dollari, una somma relativamente piccola per gli standard
internazionali, il fatto che la sua popolazione sia di
soltanto 50.000 persone rende questo debito una cifra
astronomica. Diversi fattori hanno contribuito al rapido aumento del
debito del paese, compresi i costi di ricostruzione a seguito di vari uragani,
il declino dell’industria dello zucchero e una contrazione del
turismo. Il debito del paese è vicino al 200% del PIL.
· GRECIA. Dopo la crisi del 2008
l’economia greca è crollata sotto il peso dei miliardi da restituire all’Unione
Europea, alla Banca Centrale Europea e a Fondo Monetario
Internazionale (la cosiddetta troika). La sua economia è scesa del
25% negli ultimi sette anni e il suo debito è a oltre il 170% del PIL.
· LIBANO. Il debito del
paese è esploso negli ultimi anni, principalmente a causa
del rallentamento dell’economia. Nel 2013, per esempio, l’economia è
cresciuta del 2% e il debito è aumentato del 10%. Il debito del paese è
del 163% del PIL.
· ITALIA. Anche se il debito italiano è
stato accumulato in diversi anni, il vero problema è sorto con
la crisi economica del 2008. Da allora l’economia in Italia non si è più
ripresa. È l’unico paese del G7 che non è ancora riuscito a tornare
ai livelli ante-crisi. Dal momento che i creditori sono soprattutto interni al
paese (soprattutto banche) e il principale debitore è lo Stato, c’è chi teme lo
scoppio di una crisi bancaria se il governo italiano non fosse in grado di
adempiere ai propri obblighi. Il debito totale del paese è di circa il
132% del PIL.
· PORTOGALLO. È stato il
secondo paese europeo ad essere salvato da parte dell’Unione Europea e
del Fondo Monetario Internazionale, dopo che il suo settore finanziario
era sull’orlo di un collasso totale. Il suo debito è del 129% del PIL.
· GIAMAICA. Il problema del debito
per il paese è di lunga data, ma ha ormai raggiunto un punto in cui il governo
paga il doppio di interessi di quanto spende per la salute e per
l’istruzione. La trappola del debito è scattata nel 1980, quando il Fondo
Monetario Internazionale ha prestato il denaro che serviva al paese per le
importazioni di beni di prima necessità, i cui prezzi avevano subito forti
aumenti. Da allora, la situazione è diventata disastrosa, con tagli selvaggi
alla spesa pubblica e un aumento drammatico della povertà. Nel 2013 il
numero di donne che sono morte per parto sono quasi raddoppiate rispetto
al 1990, mentre il numero di bambini che completano gli studi della scuola
elementare è sceso di oltre il 25%. L’ultimo dato disponibile sul debito
pubblico del paese riportava un 127,3% del PIL.
· IRLANDA. La crisi finanziaria del 2008
ha provocato l’espansione del debito pubblico, che prima di allora era
relativamente basso. Il sistema finanziario del paese è virtualmente crollato e
ha innescato un salvataggio delle banche organizzato dal governo che è
costato svariati miliardi. Da allora il debito è stimato al 120% del PIL
e i debitori sono la Banca Centrale Europea, il Fondo Monetario
Internazionale e altri creditori internazionali. Al paese sono
stati concessi 30 anni di tempo per ripagare il suo debito.
· ISLANDA. L’economia dell’isola
del nord Atlantico è crollata durante la crisi finanziaria del
2008, quando tutti e tre i suoi principali istituti bancari sono falliti.
Lo Stato non aveva le risorse per un salvataggio completo e, per non fallire a
sua volta, ha accettato un prestito, anche dal Fondo Monetario
Internazionale, di oltre 5 miliardi di dollari, una somma enorme
per un’economia il cui valore totale ammonta a circa 10 miliardi di
dollari. Il debito è ancora al 119% del PIL.
· ERITREA. Il debito del paese ammontava
nel 2012 al 118% del PIL e non sono disponibili dati più recenti a
causa della segretezza imposta dal governo. Una parte significativa del debito
è stata generata dalle spese militari, da quando l’Eritrea ha
combattuto una guerra con l’Etiopia nel 1990.
· ANTIGUA E BARBUDA. Un’altra nazione
caraibica che è stata costretta a chiedere aiuto al Fondo Monetario
Internazionale è Antigua e Barbuda, nel 2010, quando il
debito totale del paese era al 130% del PIL e il paese era nel mezzo di
una crisi che da tre anni aveva ridotto la produzione economica del paese.
Secondo stime recenti il livello di indebitamento si è ridotto all’89%.
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Nota :
Alla fine del novembre scorso, il debito
pubblico italiano si attestava a 2.212
miliardi, di cui 1.871 miliardi in forma di titoli di stato. I restanti 340
miliardi sono passività, ma non espresse in bond, quasi del tutto degli Enti
locali. Il rapporto tra debito e pil dovrebbe essersi attestato al 133% a fine 2015
e quest’anno dovrebbe scendere per la prima volta dopo 7 anni di crescita
incessante, ma le previsioni indicano che il calo sarà contenuto, pari a meno
di un punto percentuale. L’Italia continuerà ad essere gravata dal secondo
debito più “pesante” in Europa, dopo quello della Grecia. In genere, si guarda
alla soglia del 140% del pil come punto di non ritorno, perché quello sarebbe
lo spartiacque tra un debito sostenibile e uno non sostenibile. Grazie
all’intervento della BCE, che con il “quantitative easing” acquista titoli di
stato, Abs e “covered bond” per un controvalore di 60 miliardi al mese, i rendimenti
sovrani sono scesi ai minimi in tutta l’Eurozona,
esclusa la Grecia, che non rientra nel programma. L’Italia sta emettendo i suoi
bond a rendimenti infimi e il costo di rifinanziamento del nostro debito non è
mai stato così basso, crollato ad appena l’1,35% nel 2014 e dimezzatosi ancora
lo scorso anno.
Rendimenti bond
bassi, ma solo per BCE
Ci troviamo dinnanzi al paradosso di possedere il
debito pubblico più alto della nostra storia, ma di pagarlo a un costo minore
record. Tutto bene, se non fosse che prima o poi questa fase
“magica” sui mercati finanziari finirà. Non
quest’anno, né forse l’anno prossimo, ma arriverà il giorno, in cui la BCE
inizierà ad aumentare i tassi di interesse e a ridurre gli stimoli monetari.
L’intera struttura dei tassi di mercato salirà e con essa il costo di emissione
del nostro debito. Bisogna prepararsi all’appuntamento, come farebbe una
formica durante la bella stagione, mettendo da parte il necessario per quando
arriverà l’inverno. Ma l’Italia sta facendo tutto questo? La risposta è “ni”.
Non si può certo dire che il nostro paese stia comportandosi da cicala, perché
rispetta i limiti al tetto del deficit e ha tagliato in questi anni sia il
rapporto deficit/pil – passato dal 3,9% del 2011 al 2,6% del 2015 – sia la
spesa previdenziale, che in prospettiva rappresentava la maggiore fonte di
preoccupazione per la tenuta dei conti pubblici, stabilizzandola.
[tweet_box design=”box_09″ float=”none”] Prepariamoci all’aumento del costo del
debito, non a farne di altro [/tweet_box]
Sugli interessi relativi al famoso
DPI (Debito Pubblico Italiano) ?
Gli interessi sui BOT sono meno di zero, quelli sui CCT sono pari a quelli dei BOT + uno spread che attualmente è lo 0,15 semestrale, ovvero lo 0,30 annuale, quindi il tasso annuo effettivo è intorno allo 0,20. Gli interessi sui BTP sono ancora un po' più alti, ma come sapete il famoso "spread" rispetto a quelli tedeschi viene calcolato solo su quelli a 10 anni, non molto numerosi. Oggi lo "spread BTP-BUND 10Y" (così viene definito in gergo tecnico) è circa 124 punti base, ovvero l'1.24, con un tasso effettivo di 1.40 circa. Solo 3 anni fa era 500 punti base, ovvero il 5%.
Gli interessi sui BOT sono meno di zero, quelli sui CCT sono pari a quelli dei BOT + uno spread che attualmente è lo 0,15 semestrale, ovvero lo 0,30 annuale, quindi il tasso annuo effettivo è intorno allo 0,20. Gli interessi sui BTP sono ancora un po' più alti, ma come sapete il famoso "spread" rispetto a quelli tedeschi viene calcolato solo su quelli a 10 anni, non molto numerosi. Oggi lo "spread BTP-BUND 10Y" (così viene definito in gergo tecnico) è circa 124 punti base, ovvero l'1.24, con un tasso effettivo di 1.40 circa. Solo 3 anni fa era 500 punti base, ovvero il 5%.
Negli ultimi 20 anni l’avanzo
primario italiano ha rappresentato mediamente il 2,1% del Prodotto interno
lordo (Pil) contro lo 0,2% della Germania. Il problema è che tanta abbondanza è
finita nella voragine della spesa per interessi
da pagare sul debito pubblico che, per l’Italia, ha significato 1.650
miliardi (pari al 6% del Pil), contro 1.058 miliardi d’interessi pagati dalla
Germania (anche in questo caso dal 1995, pari al 2,4% del Pil), 870 miliardi
dalla Francia (2,6% del Pil), 386 miliardi dalla Spagna (2,4% del Pil).
«In sintesi»,
commenta Poli, «un debitore con debito
elevato paga interessi più che proporzionali. E tutto questo è la conferma
del peccato originale che l’Italia si trascina dal 1992, l’anno della firma del
Trattato di Maastricht, sottoscritto pur avendo un parametro del tutto fuori
controllo: il debito pubblico, che rappresentava il 104,7%del Pil contro il 42%
della Germania, il 39,7% della Francia e il 45,5% della Spagna».
IL PRODOTTO
INTERNO LORDO ( P I
L )
Il PIL (o prodotto interno lordo) misura
il valore di mercato di tutte le merci finite e di tutti i servizi prodotti
nei confini di una nazione in un dato periodo di tempo. La nozione di prodotto
è riferita quindi ai beni e servizi che hanno una valorizzazione in
un processo di scambio, ed è in parole molto semplici la ricchezza che un certo
Paese è in grado di produrre nell’arco temporale di un anno.
Si tratta della somma totale dei beni e dei servizi che si producono per essere consumati all’interno di uno Stato.
Facendo un conteggio preciso del PIL si è in grado di determinare la ricchezza di un Paese per l’anno in questione, facendo un rapporto tra il prodotto interno lordo e il numero delle persone che vivono in quel determinato Paese.
In questo modo si ottiene il reddito medio di ogni cittadino, quindi si può individuare il valore della ricchezza del Paese in questione e definire se si tratta di uno Stato ricco o meno.
Si tratta della somma totale dei beni e dei servizi che si producono per essere consumati all’interno di uno Stato.
Facendo un conteggio preciso del PIL si è in grado di determinare la ricchezza di un Paese per l’anno in questione, facendo un rapporto tra il prodotto interno lordo e il numero delle persone che vivono in quel determinato Paese.
In questo modo si ottiene il reddito medio di ogni cittadino, quindi si può individuare il valore della ricchezza del Paese in questione e definire se si tratta di uno Stato ricco o meno.
Si parla di Prodotto in quanto il PIL misura il valore
dei beni finali prodotti, Interno perché la definizione e il calcolo del PIL
prende in considerazione il valore finale dei beni e dei servizi prodotti
internamente ad un determinato paese (indipendentemente dalla nazionalità di
chi li produce), a differenza del Prodotto Nazionale Lordo (PNL) che in parte è
conseguito all'estero.
Del PIL fanno parte i profitti realizzati dalle
imprese straniere in Italia, viceversa i profitti realizzati dalle imprese
italiane all'estero fanno parte del PNL italiano e del PIL dello Stato in cui
hanno sede tali imprese.
Il termine Lordo invece fa riferimento al fatto che il PIL è al lordo degli Ammortamenti.
Il termine Lordo invece fa riferimento al fatto che il PIL è al lordo degli Ammortamenti.
Esistono tre diverse metodologie per calcolare tale
grandezza. La prima, chiamata "Metodo della Spesa", permette
di ottenere il PIL attraverso la somma dei Consumi (spesa delle famiglie in
beni durevoli, beni di consumo e servizi), degli Investimenti (spesa delle
imprese e delle famiglie in immobili) della Spesa Pubblica e delle Esportazioni
nette (differenza fra esportazioni ed importazioni).
Il secondo criterio si basa sul "Metodo del
Valore Aggiunto". Il PIL in questo caso viene quantificato sommando i
valori dei Beni e dei Servizi prodotti dalle imprese. Per eliminare tutte le
duplicazioni che intervengono nella catena del valore di un bene, ad ogni
stadio della produzione viene contabilizzato, come parte del PIL, solo il
valore aggiunto al bene in questione in quello specifico stato della
produzione. Il Valore Aggiunto può essere quindi definito come la differenza
tra il ricavo ottenuto dalla vendita e la somma pagata per l’acquisto delle
materie prime e dei semilavorati utilizzati nel processo produttivo.
L’ultimo metodo, che può essere utilizzato per la
misurazione del PIL, è invece il "Metodo dei Redditi". Il
Prodotto Interno Lordo può essere, infatti, ottenuto come somma delle
Retribuzioni e dei Redditi da Capitale. Quello che però è altrettanto
importante sottolineare è che questi tre metodi conducono tutti al medesimo
risultato.
Un ultima distinzione che si può fare parlando di PIL
è quella tra PIL nominale e quello reale.
Il
PIL è nominale in quanto misura il valore finale della produzione in
un certo periodo ai prezzi di quel periodo (prezzi correnti) questo vuol dire
che il valore della ricchezza di una determinata nazione in un determinato
periodo risente dell’inflazione, cioè del fenomeno dell’aumento costante dei
prezzi.
Il
PIL reale viceversa esprime un valore reale della produzione di
beni e servizi, sterilizzato dall'effetto dell'inflazione e misura la
produzione in termini di effettivo potere d’acquisto della collettività. Per
passare dal PIL monetario al PIL reale è necessario eliminare le conseguenze
sui prezzi dovute al tasso d’inflazione.
Una crescita inattesa del PIL ha degli effetti positivi
sui mercati azionari poiché comporta un incremento degli utili aziendali e
quindi dei prezzi dei titoli. Un aumento eccessivo e non previsto del PIL può
tuttavia avere anche un effetto contrario sulle piazze azionarie, dal momento
che un’espansione troppo forte dell'economia rischia di alimentare la spirale
dell'inflazione. Per queste molteplici ragioni l'andamento del PIL rappresenta
una misura chiave nello scenario macroeconomico di un paese e viene dunque
monitorato con grande attenzione dagli operatori finanziari.
Il PIL, solitamente viene calcolato ogni anno, ma può
essere anche calcolato ogni mese. Se il valore del PIL diventa positivo,
significa che la crescita economica è in atto nel paese. Se invece la crescita
è negativa, ovvero se la differenza del PIL è negativa, stiamo all’interno di
una contrazione economica.
Ci sono tanti altri fattori che sono estremamente correlati
al PIL:
– Reddito pro-capite: viene calcolato con il
valore reale del PIL per la popolazione
– Deflatore del PIL: viene calcolato con la divisione tra PIL nominale e PIL reale
– Rapporto deficit/PIL: viene calcolato essenzialmente con la somma del deficit delle amministrazione pubbliche in relazione con il Prodotto Interno Lordo
– Deflatore del PIL: viene calcolato con la divisione tra PIL nominale e PIL reale
– Rapporto deficit/PIL: viene calcolato essenzialmente con la somma del deficit delle amministrazione pubbliche in relazione con il Prodotto Interno Lordo
Per PIL pro capite si intende invece la quantità di
prodotto interno lordo (PIL) che viene ipoteticamente posseduta, in un certo
lasso di tempo, da un gruppo di cittadini. Solitamente il PIL pro capite, viene
riportato in unità di moneta per 1 anno, in relazione agli interi stati.
Il PIL è composto essenzialmente da 4
elementi:
– Consumi (C) – che è il totale delle spese dei
consumatori per beni e servizi
– Investimenti (I) – sono tutte quelle spese e investimenti delle imprese
– Spesa Pubblica (G) – sono tutte quelle spese delle pubbliche amministrazioni per beni e servizi
– Saldo netto Bilancia Commerciale (NX)
– Investimenti (I) – sono tutte quelle spese e investimenti delle imprese
– Spesa Pubblica (G) – sono tutte quelle spese delle pubbliche amministrazioni per beni e servizi
– Saldo netto Bilancia Commerciale (NX)
Il PIL in Italia, è “non” sorprendentemente uno dei
peggiori, l’Italia è in Europa all’ultimo posto per la
crescita del PIL. La mappa è infatti una delle più scoraggianti e impressionanti.
La crescita del PIL negli ultimi 20 anni da parte dei paesi occidentali, è
estremamente inferiore rispetto ai paesi a est. A ovest invece, tra le varie
crisi economiche e boom, la crisi è stata enorme, anche se in realtà l’Unione
Europea avrebbe dovuto portare una ventata di crescita e uniformità economica.
Così non è stato. In quanto la crescita
del PIL negli ultimi 20 anni in Italia, è stata di solo l’1.8%, 28.7%
invece in Germania, 86,1% in Irlanda. Anche la Grecia ha fatto meglio
dell’Italia, con +13.5%. La Germania è cresciuta del 28,7% più della Francia,
+20,7% e della Spagna, +23,9%, ma meno del Regno Unito, +33,8% e soprattutto
meno dell’Irlanda, che da grande leader europea ha il record massimo, + 86,1%.
Molto bene anche Svezia e Finlandia, +41% all’incirca.
Molto bene anche Svezia e Finlandia, +41% all’incirca.
L’italia è quindi in una grave crisi anche per ora del
PIL, e dell’assenza di crescita, in particolar modo al Sud, che è sempre
rimasto ben al di sotto della media europea, sia oggi che negli anni 90 e 80.
Se noi italiani volessimo raggiungere almeno la Francia, dovremmo crescere
dell’1% in più rispetto ai Francesi, impossibile.
La realtà dell’Italia, è che il mercato nero rende
praticamente inaffidabile il dato sul PIL. Il mercato nero è sempre una realtà in Italia, soprattutto
con le leggi fiscali sempre più stringenti. Il mercato nero sommerge quindi il
Prodotto Interno Lordo. Infatti, se si considera anche il traffico di droga,
prostituzione, contrabbando di sigarette e altre attività illegali, l’Italia
non è più in recessione.
Il nuovo sistema contabile, chiamato anche Sistema
europeo dei conti nazionali e regionali (Sec 2010) è stato adottato a fine
2014, con il fine di facilitare il confronto tra i Paesi dell’Unione Europea, a
prescindere dal fatto che questi paesi abbiano legalizzato o meno la
prostituzione, depenalizzando poi il commercio degli stupefacenti.
Con questo
cambiamento, l’Italia ha scoperto che il suo PIL non è più sotto dello 0,1%, ma
che in realtà è ben superiore.
Il nuovo sistema, utilizzato dal 2014 in poi, ha
letteralmente “cambiato” i dati sul PIL italiani . In base agli ultimissimi dati trimestrali, il conteggio del PIL è stato nel 2013 ( da –
0,1 a 0,2 ) - nel
2015 ( da 0,4 a 0,2 ) – nel 2016 ( da 0,2 a 0,3 )
LA
POVERTA’ IN ITALIA
E’
vergognosamente inconcepibile , scandaloso , che in una Società “
civile “ , come l’Italia , in cui il 71 % in media fra
nord e sud delle famiglie sono proprietarie
di casa e dove sono in circolazione circa 37 milioni di autovetture , vi
siano ancora persone costrette a vivere in condizioni di “ povertà
assoluta “ ( circa 4,5 milioni ) .
La cosa più
scandalosa e assolutamente non più sopportabile , è il fatto che persista
pervicacemente il mantenimento di troppo elevati emolumenti economici e
nella specie dei vitalizi ancor più scandalosi , che continuano ad
essere attribuiti e regolarmente fruiti da parlamentari , come anche i
casi di troppo elevati emolumenti , fra stipendi e indennità varie ,
percepiti cumulativamente sia da parlamentari che da altre persone che
ricoprono cariche politico-istituzionali , mentre la povertà
in Italia aggredisce milioni di persone , che
sono ridotte allo stremo , le quali devono la loro sopravvivenza solo a quelle
altre persone , fortunatamente non poche , ma sempre insufficienti , che
danno loro , volontariamente , singolarmente , in modo personale spontaneo
, oppure in strutture onlus , una qualche assistenza ,soprattutto
alimentare oltre che di natura psicologica e possibilmente di una relativa,
limitata e provvisoria sistemazione , come riparo dagli agenti esterni.
E’ vergognosamente colpevole quel Governo che non
riesce , perché non vuole o perché non è capace , a reperire le risorse economiche necessarie , che
possono ricavarsi dalle fonti finanziarie più ricche e dai redditi più elevati di quella parte della collettività che è
più agiata , per consentire a chi è in
condizioni di povertà , o addirittura
di “povertà assoluta “ , di poter
fruire gratuitamente di una abitazione umanamente dignitosa , e di una assistenza socio-sanitaria , oltre che di una
minima basilare fonte di reddito individuale. Negli 8.101 comuni d’Italia è
enorme il numero delle abitazioni e degli immobili ad uso
commerciale e terziario non utilizzati, vuoti e sfitti. (Quasi cinque milioni in Italia,
possono essere nuovi beni comuni ).
. Da quando
è stato abolito il servizio di leva obbligatorio, centinaia di caserme dismesse
sono state abbandonate al degrado e all'incuria e che potrebbero essere utilizzate per fare
fronte all'emergenza abitativa, per i cittadini privi di una abitazione.
Oggi la
Chiesa in Italia possiede circa 100 mila immobili, tra i quali vi sono 9 mila
scuole, 26 mila tra chiese, oratori, conventi, campi sportivi e negozi e 5 mila
tra cliniche, ospedali e strutture sanitarie e di vario genere. Più difficile
capire quanti siano hotel, residence e strutture ricettive in genere, perché
per la maggior parte sono di proprietà di ordini di frati e suore, e non delle
diocesi.
Si tratta comunque di molte migliaia di imprese, perché tali sono, e Papa Francesco oggi prova a scongiurare l'avanzata della componente ecclesiale più orientata al business che alla carità di cui c'è sempre più bisogno.
Si tratta comunque di molte migliaia di imprese, perché tali sono, e Papa Francesco oggi prova a scongiurare l'avanzata della componente ecclesiale più orientata al business che alla carità di cui c'è sempre più bisogno.
Note sulla
“ povertà “ in Italia
Considerando
che nella popolazione italiana ( circa 60 milioni e 700.000 ) vi sono circa
4 milioni e centomila di
persone in povertà assoluta ,
(circa il 6,8
% ) e altri 6 milioni ( circa il 10 % ) in povertà relativa .
Del
totale della popolazione italiana
Il 20% più ricco ( circa 12 milioni di persone ) detiene il 61,6% della ricchezza , e anche nella fascia più ricca, la distribuzione è nettamente squilibrata a favore del vertice. Infatti , Il 5% ( circa 3 milioni di persone ) più ricco della popolazione detiene il 32,1% della complessiva ricchezza nazionale .
Il 20% più ricco ( circa 12 milioni di persone ) detiene il 61,6% della ricchezza , e anche nella fascia più ricca, la distribuzione è nettamente squilibrata a favore del vertice. Infatti , Il 5% ( circa 3 milioni di persone ) più ricco della popolazione detiene il 32,1% della complessiva ricchezza nazionale .
Mentre il 20%
( 12 milioni di persone ) è
appena al di sotto del 20,9% della
ricchezza .
Il restante 60% ( 36
milioni di persone ) si deve accontentare del 17,4%
della ricchezza nazionale, e dei
quali il 20% ( 12 milioni di persone ) più povere , ha appena lo 0,4 %
della ricchezza.
MISURE CONTRO LA POVERTA’ IN ITALIA
Gli ultimi
dati Istat sono un nuovo monito sulla crescita della povertà in Italia. Nello
stesso giorno della loro pubblicazione, la Camera ha approvato il disegno di
legge delega che prevede l’istituzione del reddito di inclusione.
Recentemente l’Istat ha comunicato che nel nostro paese sono oltre 8,3 milioni le persone in condizioni di povertà relativa (ossia quando una famiglia di due componenti spende meno della singola persona media), mentre sono 4,5 milioni quelle in povertà assoluta
Il reddito di inclusione è una misura strutturale di lotta alla povertà, il disegno di legge delega, che dopo varie modifiche è stato approvato proprio il 14 luglio 2016 dalla Camera dei deputati.
Il disegno di legge, centrato attorno al cosiddetto reddito di inclusione, è caratterizzato da tre aspetti importanti, finora trascurati nel sistema di lotta alla povertà in Italia: universalità, efficienza e complementarietà a un reinserimento nel mercato del lavoro e nel contesto sociale di appartenenza. Il reddito sarà universale rivolgendosi, uniformemente su tutto il territorio nazionale, a tutti coloro che vivono al di sotto della soglia di povertà assoluta; l’assegnazione avverrà a livello di nucleo familiare e sarà basata sull’indicatore della situazione economica equivalente (Isee). In attesa dei decreti attuativi, il governo sostiene che l’ammontare elargito arriverà fino a 320 euro al mese.
Una delle critiche maggiori al Ddl è la limitatezza della platea a cui si rivolge. Con lo stanziamento di soli 1,6 miliardi per i primi due anni, la misura non raggiungerà tutti coloro che versano in condizioni di povertà; secondo l’Alleanza contro la povertà il provvedimento potrà raggiungere al massimo il 30 per cento degli indigenti, ovvero circa 1,3 milioni di persone. In particolare, il reddito darà la priorità ai nuclei familiari con figli minori, con disabilità grave, con donne in stato di gravidanza accertata o con persone con più di 55 anni di età in stato di disoccupazione. Il Ddl rimane poi vago sullo stanziamento a regime, menzionando che partirà da un miliardo e verrà esteso in base alle risorse contingenti. La proposta originale dell’Alleanza contro la povertà, invece, prevedeva uno stanziamento graduale del reddito d’inclusione ma con un costo a regime di circa 7,1 miliardi annui. Le risorse arriveranno dal Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale, istituito con l’ultima legge di stabilità, e coperto dalla fiscalità generale, in quanto le economie derivanti dal riordino delle prestazioni di natura assistenziale, sebbene destinate al fondo, sono considerate eventuali. L’Italia si colloca agli ultimi posti in tutta l’Unione Europea per quanto riguarda l’efficacia delle misure di contrasto alla povertà. Nel 2014 i trasferimenti sociali e gli interventi di sostegno nel loro complesso hanno diminuito la percentuale di popolazione a rischio di povertà del 5,3 per cento contro la media europea dell’8,9 per cento; solo Grecia e Romania hanno fatto peggio di noi. Un intervento strutturale e organico nel contrasto alla povertà, ispirato a principi universalistici, e un riordino del sistema assistenziale, ora frammentato e inefficiente, potrebbero finalmente migliorare queste statistiche in un momento in cui la coesione sociale è sempre più a rischio.
Recentemente l’Istat ha comunicato che nel nostro paese sono oltre 8,3 milioni le persone in condizioni di povertà relativa (ossia quando una famiglia di due componenti spende meno della singola persona media), mentre sono 4,5 milioni quelle in povertà assoluta
Il reddito di inclusione è una misura strutturale di lotta alla povertà, il disegno di legge delega, che dopo varie modifiche è stato approvato proprio il 14 luglio 2016 dalla Camera dei deputati.
Il disegno di legge, centrato attorno al cosiddetto reddito di inclusione, è caratterizzato da tre aspetti importanti, finora trascurati nel sistema di lotta alla povertà in Italia: universalità, efficienza e complementarietà a un reinserimento nel mercato del lavoro e nel contesto sociale di appartenenza. Il reddito sarà universale rivolgendosi, uniformemente su tutto il territorio nazionale, a tutti coloro che vivono al di sotto della soglia di povertà assoluta; l’assegnazione avverrà a livello di nucleo familiare e sarà basata sull’indicatore della situazione economica equivalente (Isee). In attesa dei decreti attuativi, il governo sostiene che l’ammontare elargito arriverà fino a 320 euro al mese.
Una delle critiche maggiori al Ddl è la limitatezza della platea a cui si rivolge. Con lo stanziamento di soli 1,6 miliardi per i primi due anni, la misura non raggiungerà tutti coloro che versano in condizioni di povertà; secondo l’Alleanza contro la povertà il provvedimento potrà raggiungere al massimo il 30 per cento degli indigenti, ovvero circa 1,3 milioni di persone. In particolare, il reddito darà la priorità ai nuclei familiari con figli minori, con disabilità grave, con donne in stato di gravidanza accertata o con persone con più di 55 anni di età in stato di disoccupazione. Il Ddl rimane poi vago sullo stanziamento a regime, menzionando che partirà da un miliardo e verrà esteso in base alle risorse contingenti. La proposta originale dell’Alleanza contro la povertà, invece, prevedeva uno stanziamento graduale del reddito d’inclusione ma con un costo a regime di circa 7,1 miliardi annui. Le risorse arriveranno dal Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale, istituito con l’ultima legge di stabilità, e coperto dalla fiscalità generale, in quanto le economie derivanti dal riordino delle prestazioni di natura assistenziale, sebbene destinate al fondo, sono considerate eventuali. L’Italia si colloca agli ultimi posti in tutta l’Unione Europea per quanto riguarda l’efficacia delle misure di contrasto alla povertà. Nel 2014 i trasferimenti sociali e gli interventi di sostegno nel loro complesso hanno diminuito la percentuale di popolazione a rischio di povertà del 5,3 per cento contro la media europea dell’8,9 per cento; solo Grecia e Romania hanno fatto peggio di noi. Un intervento strutturale e organico nel contrasto alla povertà, ispirato a principi universalistici, e un riordino del sistema assistenziale, ora frammentato e inefficiente, potrebbero finalmente migliorare queste statistiche in un momento in cui la coesione sociale è sempre più a rischio.
Note
da Rapporto Svimez
2015
Sulla situazione economica del Mezzogiorno d’Italia
.Pil negativo per il settimo anno
consecutivo, con una crescita che dal 2001 al 2013 è stata meno della metà di
quella della Grecia. Divario record al 53,7% del Pil pro capite rispetto al
resto del Paese. Investimenti che continuano a cadere. Industria al tracollo,
con un valore aggiunto precipitato del 38,7% dal 2008 al 2014. Donne e giovani
fuori dal mercato del lavoro. Nascite al minimo storico da 150 anni, che
preannunciano uno «tsunami demografico». E un rischio su tutti: «Il
depauperamento di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe
impedire al Mezzogiorno di agganciare la possibile nuova crescita e trasformare
la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente».
Performance di gran lunga peggiore
della Grecia
Dal 2001 al 2014 il tasso di crescita cumulato della Grecia è stato pari a -1,7%. La performance più negativa dell’intera eurozona, ma mai quanto il Meridione d’Italia: -9,4%, contro il +1,5% del Centro-Nord.
Dal 2001 al 2014 il tasso di crescita cumulato della Grecia è stato pari a -1,7%. La performance più negativa dell’intera eurozona, ma mai quanto il Meridione d’Italia: -9,4%, contro il +1,5% del Centro-Nord.
Il malessere del mondo produttivo
Colpiscono le cifre sull’industria, per quel già citato crollo degli investimenti del 59,3% dal 2008 al 2014, oltre il triplo del calo pesante registrato al Centro-Nord (-17,1%), e per la flessione del 35% del valore aggiunto, a fronte del -17,2% nel resto d’Italia. Nello stesso periodo calano anche le costruzioni (-47,4% gli investimenti, -38,7% il valore aggiunto) e i servizi (-33% gli investimenti, -6,6% il valore aggiunto). Non va meglio per l’agricoltura: investimenti -38%. Negative anche le esportazioni: nel 2014 sono calate del 4,8% contro la crescita del 3% al Centro-Nord. E si sono dimezzate al Sud le agevolazioni alle imprese sul totale nazionale: erano il 63,5% nel 2008, sono diventate il 33,2% nel 2013. Il pericolo, per Svimez, è quello già denunciato nel Rapporto 2014: una «desertificazione industriale».
Colpiscono le cifre sull’industria, per quel già citato crollo degli investimenti del 59,3% dal 2008 al 2014, oltre il triplo del calo pesante registrato al Centro-Nord (-17,1%), e per la flessione del 35% del valore aggiunto, a fronte del -17,2% nel resto d’Italia. Nello stesso periodo calano anche le costruzioni (-47,4% gli investimenti, -38,7% il valore aggiunto) e i servizi (-33% gli investimenti, -6,6% il valore aggiunto). Non va meglio per l’agricoltura: investimenti -38%. Negative anche le esportazioni: nel 2014 sono calate del 4,8% contro la crescita del 3% al Centro-Nord. E si sono dimezzate al Sud le agevolazioni alle imprese sul totale nazionale: erano il 63,5% nel 2008, sono diventate il 33,2% nel 2013. Il pericolo, per Svimez, è quello già denunciato nel Rapporto 2014: una «desertificazione industriale».
Il lavoro che non c’è: nel 2014
occupati sotto i 6 milioni
Inevitabili i riflessi sull’occupazione. Negli anni della crisi nel Mezzogiorno è caduta del 9%, oltre sei volte più che al Centro-Nord. Delle 811mila persone che hanno perso il lavoro tra il 2008 e il 2014, ben 576mila sono residenti al Sud. Che concentra il 26% appena degli occupati d’Italia ma il 70% delle perdite determinate dalla recessione. Nel solo 2014 il Meridione ha perso 45mila posti, arrivando a 5,8 milioni di occupati, sotto la soglia psicologica dei 6 milioni e raggiungendo il livello più basso almeno dal 1977, l’anno da cui sono disponibili le serie storiche dell’Istat. Una prova - spiega la Svimez - «del processo di crescita mai decollato» e del «livello di smottamento del mercato del lavoro meridionale».
Inevitabili i riflessi sull’occupazione. Negli anni della crisi nel Mezzogiorno è caduta del 9%, oltre sei volte più che al Centro-Nord. Delle 811mila persone che hanno perso il lavoro tra il 2008 e il 2014, ben 576mila sono residenti al Sud. Che concentra il 26% appena degli occupati d’Italia ma il 70% delle perdite determinate dalla recessione. Nel solo 2014 il Meridione ha perso 45mila posti, arrivando a 5,8 milioni di occupati, sotto la soglia psicologica dei 6 milioni e raggiungendo il livello più basso almeno dal 1977, l’anno da cui sono disponibili le serie storiche dell’Istat. Una prova - spiega la Svimez - «del processo di crescita mai decollato» e del «livello di smottamento del mercato del lavoro meridionale».
Allarme donne e giovani
C’è un allarme specifico che riguarda le donne (lavora soltanto il 20,8% contro una media Ue del 51%) e i giovani: tra il 2008 e il 2014 il Sud ha perso 622mila posti tra gli under 34 (-31,9%) mentre ne ha guadagnati 239mila tra gli over 55. Per gli under 24 nel 2014 il tasso di disoccupazione ha sfiorato il 56%, contro il 35,5% del Centro-Nord. Parla da solo il dato sui neet (quelli che non studiano e non lavorano): nel 2014 in Italia sono aumentati del 25% rispetto al 2008, arrivando a 3,5 milioni. Quasi due milioni sono meridionali.
C’è un allarme specifico che riguarda le donne (lavora soltanto il 20,8% contro una media Ue del 51%) e i giovani: tra il 2008 e il 2014 il Sud ha perso 622mila posti tra gli under 34 (-31,9%) mentre ne ha guadagnati 239mila tra gli over 55. Per gli under 24 nel 2014 il tasso di disoccupazione ha sfiorato il 56%, contro il 35,5% del Centro-Nord. Parla da solo il dato sui neet (quelli che non studiano e non lavorano): nel 2014 in Italia sono aumentati del 25% rispetto al 2008, arrivando a 3,5 milioni. Quasi due milioni sono meridionali.
In arrivo «tsunami» demografico
A tutto ciò si aggiunge il calo delle nascite, che non accenna a fermarsi (persino gli stranieri iniziano a fare meno figli), e la migrazione verso il Centro-Nord che dal 2001 al 2014 ha interessato oltre 1,6 milioni di persone. «Un intreccio perverso», lo definisce la Svimez. «Il Sud sarà interessato nei prossimi anni - avverte il rapporto - da uno stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili, destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, a fronte di una crescita di 4,6 milioni nel Centro-Nord».
A tutto ciò si aggiunge il calo delle nascite, che non accenna a fermarsi (persino gli stranieri iniziano a fare meno figli), e la migrazione verso il Centro-Nord che dal 2001 al 2014 ha interessato oltre 1,6 milioni di persone. «Un intreccio perverso», lo definisce la Svimez. «Il Sud sarà interessato nei prossimi anni - avverte il rapporto - da uno stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili, destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, a fronte di una crescita di 4,6 milioni nel Centro-Nord».
Una persona su tre a rischio povertà
Il risultato è la povertà: dal 2011 al 2014 le famiglie assolutamente povere sono aumentate in Italia del 37,8% al Sud e del 34,4% al Centro-Nord. Ma nel 2013 una persona su tre nel Mezzogiorno era a rischio povertà, contro una su dieci al Centro-Nord. Sicilia e Campania le regioni dove il pericolo è più elevato. Quasi il 62% dei meridionali guadagna meno di 12mila euro annui, contro il 28,5% del Centro-Nord. Ennesima faccia di un Paese «sempre più diviso e diseguale».
Il risultato è la povertà: dal 2011 al 2014 le famiglie assolutamente povere sono aumentate in Italia del 37,8% al Sud e del 34,4% al Centro-Nord. Ma nel 2013 una persona su tre nel Mezzogiorno era a rischio povertà, contro una su dieci al Centro-Nord. Sicilia e Campania le regioni dove il pericolo è più elevato. Quasi il 62% dei meridionali guadagna meno di 12mila euro annui, contro il 28,5% del Centro-Nord. Ennesima faccia di un Paese «sempre più diviso e diseguale».
LA
CRISI DELLE PICCOLE
E MEDIE IMPRESE
Nel 2013 in Italia hanno chiuso in media 54 imprese ogni giorno, due
ogni ora. Lo scorso anno su tutto il territorio nazionale si sono registrati
14.269 fallimenti, in crescita del 14% rispetto al 2012 e del 54% rispetto al
2009. Di fatto in cinque anni sono sparite dalla mappa nazionale 59.570
imprese, in un trend di costante aumento dall'inizio della crisi a oggi, con il
suo picco nell'ultimo trimestre 2013: un nuovo record di 4.257 fallimenti (+14%
rispetto al quarto trimestre 2012, +39% ( Ilaria Vesentini - Il Sole 24
Ore -)
A scattare la drammatica fotografia è Cribis D&S, la società del
gruppo bolognese Crif specializzata nella business information nella sua
periodica «Analisi dei fallimenti in Italia». «Nonostante alcuni timidi segnali
di miglioramento negli indicatori dell'economia italiana – commenta l'ad di
Cribis D&B, Marco Preti, il conto dei fallimenti mostra una situazione
ancora molto preoccupante e il picco del quarto trimestre 2013, dopo cinque
anni caratterizzati da un trend in costante peggioramento . ( Ilaria Vesentini
- Il Sole 24 Ore –)
Continua ad avanzare la desertificazione di
attività commerciali e pubblici esercizi nei centri urbani. Secondo le stime
dell'Osservatorio Confesercenti, anche nel 2015 il bilancio tra aperture e
chiusure di negozi, bar e ristoranti sarà in rosso, con un saldo negativo
di oltre 29 mila imprese. Un crollo meno
grave di quello registrato nel 2014 (-34mila) ma comunque peggiore delle
attese. Il calo delle chiusure, il primo in cinque anni, è infatti quasi
annullato dalla frenata delle aperture: in totale quest'anno si stima che
inizieranno l'attività circa 37mila nuove imprese, contro le oltre 42mila che
hanno aperto lo scorso anno e le 45mila nel 2013. Il 2015 è il
quinto anno consecutivo di contrazione per il commercio in
sede fissa, la ristorazione ed il servizio bar. In totale, dal 2011 ad oggi,
questi tre settori hanno registrato circa 207mila aperture e 346mila chiusure,
per un saldo negativo di poco meno di 140mila imprese. In media, negli ultimi 5
anni, ogni giorno hanno aperto 114 imprese e 190 hanno chiuso,
per un saldo giornaliero negativo di 76 attività.
LA
LOTTA ALLA CORRUZIONE ,
ALLA EVASIONE FISCALE ,
ALLA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA
CORRUZIONE
E MALAFFARE
Ci lamentiamo
perché , pur dovendo pagare tante
tasse , i servizi
pubblici funzionano male
o sono gravemente
insufficienti e la
crescita economica e sociale nel
nostro Paese è troppo
lenta rispetto a quella
di altri Paesi europei ,
nonostante la presenza di attuali condizioni congiunturali più favorevoli rispetto agli
anni passati ?
La risposta più
immediata , naturalmente , è quella
che riguarda la
politica del Governo e
degli Organi legislativi sulla
gestione delle risorse pubbliche
.
Infatti , se
vi sono carenze
o inefficienze , le
cause sono dovute
a motivi ben precisi e diversi :
al fatto
che vi sono troppi
sprechi di denaro ; troppe
opere pubbliche rimaste incompiute , eccessivi costi e ritardi nelle relative realizzazioni ; inadempienze e
violazioni di norme in materia di appalti ; molto
gravi le condizioni di disuguaglianza
e di sperequazione economica fra
ceti sociali per una
iniqua redistribuzione della
ricchezza nazionale e un iniquo
sistema di imposizione
fiscale ; che l’apparato burocratico degli
enti pubblici è
troppo complesso ,
inutilmente ripetitivo , dispersivo e
quindi economicamente oneroso ,
difettoso nella organizzazione e controlli
gestionali e quindi nella resa ed efficienza
lavorativa-burocratica ; che l’apparato
giudiziario risente di carenze strutturali , di personale , di complessità
procedurali e quindi di lentezze
decisionali e sovrabbondanza di
pendenze processuali ; che il sistema
penitenziario presenta gravi
carenze di ordine strutturale , carceri
insufficienti e quindi sovraffollate , carenze di personale di
vigilanza penitenziaria ; che gli apparati
preposti all’ordine pubblico
risentono anch’essi di carenze
strutturali , di mezzi e di personale operativo ; che
l’apparato sanitario presenta
gravi squilibri strutturali e funzionali nell’ambito
delle diverse regioni
d’Italia ; che gli
istituti scolastici accusano
gravi carenze sotto l’aspetto
della manutenzione e sicurezza
strutturale degli immobili
; che in
tutto il territorio nazionale
sono assai carenti le opere di salvaguardia
e della messa in sicurezza di luoghi abitativi riguardo
al rischio sotto l’aspetto idrogeologico
e degli eventi tellurici .
Problemi
gravissimi , tutti questi , ma
che potrebbero essere
risolti positivamente ( vds. “ Proposte “ elencate
sotto ) , ed anche in tempi
ragionevolmente non lunghi ,
solo che vi
fosse , da parte dei
predetti Organi di Governo e Legislativi
, la reale “volontà “
politica di risolverli , con decisione e in modo responsabile e con
elevato senso istituzionale
e di giustizia sociale.
Però , oltre alla “volontà
e capacità politica “ quali presupposti fondamentali , vi è un
altro e
ben più influente
fattore , che è al
di fuori dell’ambito
delle competenze organizzative
e gestionali di
carattere politico -
istituzionale ; tale
fattore riguarda la “
Moralità nel senso della Onestà “ ,
non solo riguardo a chi riveste incarichi e responsabilità pubbliche
, bensì anche riguardo ai comportamenti dei privati cittadini nell’ambito dei rapporti sia privati , sia con i pubblici dipendenti .
La Moralità
, nel senso della onestà e correttezza,
è il binario insostituibile sul
quale deve procedere
la locomotiva dell’amministrazione pubblica riguardo
alla gestione del “ bene e delle
risorse pubbliche “ , affinché
possa esservi vera
e reale evoluzione
e crescita sociale nel Paese .
Nessun
programma governativo , di
qualsiasi colore politico
esso sia ,
può sortire buoni
risultati o comunque soddisfacenti per l’interesse
ed il bene della collettività
, se
chi vi mette mano
o in qualche
modo ne è
interessato , approfitta
della propria posizione pubblica per
trarne un vantaggio personale illecito , attraverso la corruzione , la
concussione , l’abuso d’ufficio , etc..
Così come non possono
ottenersi condizioni di
benessere sociale e
convivenza civile , se nello
stesso ambito della
cittadinanza , il
fenomeno dei comportamenti
illegali , della violazione
delle leggi , viene ad
assumere livelli allarmanti
per la sua
diffusione e capillarità nei
più diversi ceti sociali ,
per la crescente
mentalità di considerare
lo Stato come un Ente
estraneo e conflittuale
, e le sue leggi come
ostacoli al raggiungimento di ciascun
interesse privato .
In conclusione ,
una “ Società “ in cui la
corruzione ed il
malaffare , nonché i traffici
della criminalità organizzata
, assumono ad ogni
livello posizioni di
rilievo e sempre più pericolose , è destinata ad
essere drasticamente e
irrimediabilmente emarginata da
ogni contesto internazionale , e conseguentemente a
diventare sempre meno competitiva ; destinata a registrare
aumenti di ceti sociali sempre più poveri , disuguaglianze profonde
rispetto a minoranze sempre più ricche e benestanti ; e conseguentemente
, gravi insofferenze popolari
e disaffezione e sfiducia
verso le istituzioni dello
Stato e della politica.
Proposte
che potrebbero essere avanzate al
fine di poter rimediare ai danni
ed evitare le
conseguenze negative prodotte
da fattori di
inefficienza e carenze
riguardo alla gestione
da parte degli
Organi politico-istituzionali
delle risorse e
dei beni pubblici
e dei servizi
di interesse pubblico , nonché
riguardo al sistema fiscale :
1 ) Realizzazione della “ Banda larga “ in tutto il territorio nazionale;
2 ) Trasparenza
e pubblicità , con obbligo
da parte dell’Ente pubblico di
consentire a qualsiasi cittadino
utente ogni possibilità di libero accesso , attraverso
apposito sito internet , degli atti , provvedimenti e
documenti economico- finanziari e normativi
emessi e prodotti dagli Enti
Pubblici , a qualsiasi livello istituzionale , nonché la possibilità di prendere conoscenza
dei tempi e dei costi di
esecuzione di tutti gli
incarichi e progetti di opere
pubbliche e di servizi di pubblico interesse relativi
all’ente pubblico interessato
3 ) Semplificazione delle norme
burocratiche procedurali
riguardo agli uffici e delle
pratiche nei servizi delle Pubbliche
Amministrazioni , accorpamento di uffici
ed incarichi e servizi
pubblici , con istituzione di
appositi centri amministrativi , aventi sportelli
“ polifunzionali “ ,
attraverso i quali
poter richiedere informazioni , produrre e
ricevere atti e documenti , in modo contestuale , anche riguardo a
pratiche amministrative di diversa
natura e specie .
4 ) Responsabilizzazione del personale dipendente della Pubblica
Amministrazione , in primis riguardo ai dirigenti , in ordine agli incarichi di ufficio nei
servizi amministrativi e burocratici ,
attraverso sanzioni disciplinari e
penalizzazioni di tipo economico , in caso di accertate violazioni delle norme
comportamentali ed esecutive attinenti
ai doveri d’ufficio ;
5 ) Adeguamento quantitativo e professionale dell’Apparato
della Salute Pubblica , con rinforzo degli Organici di personale medico e
paramedico , attraverso una più efficiente organizzazione dei servizi
sanitari e collocazione di più
numerosi siti ospedalieri ,
specie di Pronto Soccorso , in zone di più facile accesso e riordino delle spese
e dei costi
sanitari per strutture , e
prodotti farmaceutici , attraverso protocolli
unificati a livello nazionale
e interventi ministeriali di controllo gestionale ;
6 ) Adeguamento quantitativo e professionale dell’Apparato
giudiziario , con rinforzo degli
organici del personale , magistrati ed operatori amministrativi e
penitenziari , ampliamento e
ammodernamento delle strutture
giudiziarie e penitenziarie , semplificazione
delle norme procedurali in materia di processi civili e
penali ;
7) Adeguamento
quantitativo e professionale , con rinforzi
degli Organici di personale , con
ammodernamento di mezzi e di strutture , riguardo all’Apparato della Sicurezza Nazionale e dell’ Ordine Pubblico ;
8 ) Adeguamento
quantitativo e messa in sicurezza
delle strutture immobiliari
e strumentali degli
istituti scolastici , nel loro complesso in tutto il territorio
nazionale e adeguamento professionale degli organici del corpo insegnanti , in
funzione delle nuove realtà costituite dalla immissione di soggetti immigrati;
9 ) Interventi di monitoraggio in ordine
alla complessiva situazione e condizione idrogeologica in tutto il territorio
nazionale , con particolare attenzione e urgente attivazione di manutenzione e messa in sicurezza in quelle zone più a rischio di smottamenti
franosi e di esondazioni di fiumi e torrenti , di fenomeni tellurici ;
10 ) Riforma del sistema fiscale , con rimodulazione
delle aliquote fiscali finalizzata a
ridurre drasticamente le disuguaglianze , le differenze quantitative degli importi di reddito fra i
ceti meno abbienti e quelli
a più alto reddito , in modo da realizzare una redistribuzione
della ricchezza in misura più equa fra i contribuenti e consentire la
corresponsione di un reddito minimo garantito a tutti quei cittadini privi di reddito , disoccupati , inoccupati ,
inabili.
11 ) Realizzazione
di più efficaci misure e mezzi di contrasto alla evasione e alla elusione
fiscale , nonché ai traffici illeciti di denaro , di droga , di armi , di
prostituzione , alla corruzione , attuando rapidi e decisi interventi esecutivi
di confisca di beni e incameramento nelle casse dello Stato di somme di
denaro ricavate , a seguito di condanne per
attività illegali .
La corruzione in Italia
Il nostro paese è 10° nella classifica dei paesi del
G20 peggio di noi solo la Bulgaria
Ogni anno la Transparency International stila
una lista del grado di corruzione presente nei paesi del mondo e da questa
classifica è emerso che nel 2015 l’Italia era 61a nella classifica
mondiale e 10a nella classifica europea. I dati restano quindi
sconfortanti sul piano internazionale e nella classifica ci batte in corruzione
solamente la Bulgaria, ma siamo superati ad esempio da paesi europei come la Romania
e la Grecia. Rispetto al 2014 siamo comunque migliorati – anche
se lievemente – infatti due anni fa eravamo primi in classifica per corruzione
anche se – come scrive Trasparency in una nota – non esiste un modo
assolutamente affidabile per calcolare i livelli onnicomprensivi di corruzione
dei Paesi o territori sulla base di dati empirici oggettivi. Ma ciò non ci
rende indietro comunque l’onore…infatti vi è una sostanziale conferma sulla pessima
reputazione del nostro Paese nell’analisi sul tema delle tangenti.
Abbiamo visto che quest’anno dei 28 paesi europei
presenti nella classifica la Bulgaria è ultima in classifica, poi ci
siamo noi, mentre prima in classifica la
Danimarca.
Per quanto riguarda il nostro Paese c’è
un’inversione di tendenza rispetto al passato.
Comunque i pareri su questo dato inerente il nostro
Paese arrivano direttamente da uomini d’affari ed esperti di settore. Questo
dato c’è da dire che era comunque atteso da esperti e addetti ai lavori e dal Corruption
Perceptions Index del 2015 stilato dall’organizzazione non governativa
Transparency International risulta che questi dati sulla corruzione si
basano anche sul sentimento di percezione delle persone.
Secondo il rapporto del 2015 l’Italia con i suoi 44
punti – rispetto ai 43 del 2014 – si ritrova al 61esimo posto
tra le 168 nazioni censite sul piano internazionale e come detto penultima
nella lista dei 28 membri dell’Unione Europea.
Nei dati non c’è solo la gente comune e la loro
percezione, ma questi riflettono anche l’opinione degli investitori esteri
potenziali nel nostro Paese e la loro opinione nel mercato conta purtroppo più
di quella della maggioranza delle persone. E da queste opinione emerge che
negli ultimi 2 anni l’Italia è rimasta ferma al palo ed è stata anche
sorpassata da paesi considerati molto corrotti come Grecia e Romania.
Questo ci conferma anche che gli sforzi fatti dapprima
dalla legge Severino susseguiti dall’impegno messo in campo dall’Autorità
nazionale anti corruzione guidata da Raffaele Cantone
purtroppo non hanno scalfito quello che a questo punto si può considerare un malcostume
che dal basso – quindi anche da comportamenti abituali diffusi tra la gente comune
– arriva fino ad alte sfere e trova lì la sua massima espansione. Quindi la
strada da percorrere per rimettere nei giusti binari il nostro Paese su questo
tema è in salita e lunga. D’altra parte anche le parole del presidente della
Repubblica Sergio Mattarella analizzano questo fenomeno: C’è una
corruzione che vediamo diffusa come se ci fosse una sorta di concezione
rapinatoria della vita. A conferma del fatto che il costume in tal
senso è estremamente diffuso anche se le colpe di chi sta in basso e magari
accetta di essere corrotto per vivere sono estremamente differenti da quelle di
coloro che corrompono e accettano la corruzione per accumulare grandi
ricchezze a scapito di molti.
L'annuale classifica conferma la pessima reputazione
del nostro Paese sul fronte delle tangenti. Tra i 28 membri dell'Unione fa
peggio solo la Bulgaria, mentre ci battono in trasparenza anche Romania e
Grecia. Vince la Danimarca, ultime Somalia e Corea del Nord.
Secondo uomini d’affari ed esperti di settore l’Italia
continua a essere uno dei paesi più corrotti d’Europa. Il dato emerge,
per la verità senza grandi sorprese, dal Corruption Perceptions Index 2015
di Transparency International, l’organizzazione non governativa che ogni
anno stila la classifica mondiale sulla corruzione pubblica percepita . Secondo
il nuovo rapporto l’Italia, con i suoi 44 punti (lo scorso anno erano 43), si
colloca al 61esimo posto tra le 168 nazioni censite, penultima nella
lista dei 28 membri dell’Unione Europea, dove si piazzano meglio del belpaese
sia Grecia che Romania (entrambe con 46 punti), mentre fa peggio
la sola Bulgaria (41 punti).
Secondo i dati dell’indice 2015, che riflettono l’opinione
anche di potenziali investitori esteri, negli ultimi 24 mesi l’Italia è
rimasta ferma al palo, sorpassata – tra i paesi dell’Ue – persino da quelli
considerati molto corrotti come Grecia e Romania. Segno che, nonostante gli
interventi normativi degli ultimi anni (la legge Severino in primis) e
l’impegno profuso dall’Autorità nazionale anticorruzione guidata da Raffaele
Cantone, la nostra cattiva reputazione continua a godere nel mondo
di ottima salute.
Il presidente di Transparency Italia, Virginio
Carnevali, nota però dei segnali di cambiamento: “Constatiamo con piacere
che finalmente si è avuta un’inversione di tendenza, seppur minima,
rispetto al passato, che ci fa sperare in un ulteriore miglioramento per i
prossimi anni” è il suo commento ai risultati. “Come dimostra la cronaca, la
strada è ancora molto lunga e in salita, ma con la perseveranza i risultati si
possono raggiungere. Una società civile più unita su obiettivi condivisi e
aventi come focus il bene della res publica porta un
contributo fondamentale al raggiungimento di traguardi importanti”.
L’Indice di Transparency misura la corruzione
percepita nel settore pubblico aggregando dati di 12 fonti diverse (almeno tre
per ogni nazione) e per l’Italia, tra gli altri, utilizza i sondaggi realizzati
dal World Economic Forum e dal World Justice Project. A essere
intervistati non sono i cittadini, ma uomini del mondo dell’economia ed esperti
nazionali. “La corruzione generalmente prevede attività illegali
intenzionalmente occultate, che vengono scoperte sono grazie a scandali,
inchieste e processi” spiega Transparency in una nota: “Non esiste un modo
affidabile per calcolare i livelli assoluti di corruzione di Paesi o territori
sulla base di dati empirici oggettivi”. Comparare il numero di tangenti
scoperte o il numero di processi non sempre è una soluzione efficace “perché
mostra solo quanto procure, tribunali o media sono efficaci nell’investigare e
portare allo scoperto la corruzione”. Perciò, per Transparency, misurare la
percezione resta il metodo più attendibile per comparare i livelli di
corruzione tra diverse nazioni.
I dati di quest’anno indicano che l’Italia, che ha
fermato la sua discesa rovinosa in classifica agguantando un punto in più e
scalando qualche posizione (da 69 a 61), continua comunque a non avere neppure
la sufficienza in trasparenza e a mantenere una posizione da ultima della
classe nel vecchio continente, dove i membri dell’Ue e i paesi
dell’Europa dell’ovest presentano, nel complesso, le migliori pagelle del
mondo, con un punteggio medio di 65 su 100. Ben peggiore la situazione
altrove dove, secondo l’indice, più di sei miliardi di persone
abitano nazioni con seri problemi di corruzione.
A trainare la classifica dei virtuosi, come ogni anno,
i paesi del nord Europa, Danimarca in testa con i suoi 91 punti, seguita
dalla Finlandia con 90 punti. Mentre a chiuderla, anche qui senza troppe
sorprese, con 8 punti a testa, si trovano nuovamente Somalia e Corea
del Nord.
Promossi mediamente anche i paesi del G20, tra
i quali quasi la metà supera abbondantemente la soglia della sufficienza. A
partire dal Canada (83 punti) a seguire poi Germania (81), Regno
Unito (81), Australia (79), Usa (76), Giappone (75), Francia
(70), Corea del Sud (56) e Arabia Suadita (52). Con l’Italia si
passa sotto quota 50 punti e seguono i paesi con performance peggiori, a
partire da Sud Africa (44), Turchia (42), Brasile (38) e India
(38), per finire poi con Cina (37), Indonesia (36), Messico
(35), Argentina (32) e Russia (29).
“Per compiere un salto di qualità importante occorre
un ruolo più forte della società civile” è il commento del presidente di Unioncamere,
Ivan Lo Bello. “La battaglia per legalità e trasparenza è resa meno
difficile dalla rivoluzione digitale in atto e anche su questo fronte occorre
insistere con decisione per fare della macchina pubblica un attore trasparente,
imparziale e rispettoso delle regole del mercato”. Questa la ricetta. Per
valutare i risultati occorre aspettare la pagella del prossimo anno.
LA EVASIONE
FISCALE IN ITALIA
Secondo il
rapporto 2016 dell’istituto di ricerca di Eurispes e in base alle stime del
report, l ’Italia avrebbe un PIL sommerso pari a 540 miliardi. Una
cifra enorme se si tiene conto che il PIL ufficiale ammonta invece a 1.500
miliardi di euro. Da sottolineare che ai 540 miliardi ne vanno
aggiunti ulteriori 200 che non sono stati inclusi in quanto derivanti
dall’economia criminale. Pertanto , 740 miliardi in tutto , nell’ambito dei quali, considerando un livello di tassazione del 50%, l’evasione fiscale (da sola) vale 270 miliardi. Comunque , vi è da dire che in questi ultimi tempi il sistema di contrasto all’evasione fiscale sta facendo dei progressi.
Prima di procedere occorre fare una premessa: sul sommerso e sull’evasione fiscale non ci sono, perché non ci possono essere, dati certi, ma solo stime. Ognuno dunque fa i suoi conti in base a vari parametri e tira le sue conclusioni. Di seguito vi presentiamo alcuni dati che infatti presentano stime differenti:
·
Secondo il Rapporto sull’evasione fiscale 2014 pubblicato
ministero dell’Economia basato su dati Istat, l’entità del sommerso nazionale
nel 2008 oscillava tra i 255 e i 275 miliardi di euro, cifre che in percentuali
rappresentano il 16,3% e il 17,5% del PIL.
·
Peggiori i dati di Bankitalia secondo cui nel quadriennio
2005-2008 il sommerso ammontava al 16,5%, una percentuale cui occorre sommare
un 10,9% derivante dall’economia illegale (totale 27,4%). Parlando del solo
2008 invece, i tecnici della banca d’Italia registravano un’economia non osservata
pari al 31,1% (18,5% relativo di economia sommersa e 12,6% legato alle
attività criminali).
·
I dati della Corte dei Conti (periodo di riferimento
2010-2013) parlano più nel dettaglio di 34-38 di pagamenti occultati ogni 100
euro fatturati o dichiarati.
·
Gli ultimi dati pubblicati appartengono a Confindustria
che stima un’evasione fiscale e contributiva a 122,2 miliardi di euro nel 2015,
pari al 7,5% del PIL. Al fisco vengono sottratti quasi 40 miliardi di IVA, 23,4
di IRPEF, 5,2 di IRES, 3,0 di IRAP, 16,3 di altre imposte indirette, cui si
aggiungo 34,4 di contributi previdenziali. Cifre che non corrispondono ai
calcoli del nostro Governo che nel DEF parla di 91,4 miliardi di media nel
periodo 2007-2013.
Nel 2013,
secondo gli ultimi “dati ufficiali” pubblicati, su un Prodotto Interno Lordo di
1.600 miliardi, l’evasione ammontava a 180 miliardi (10%). Oggi, secondo
Eurispes, la cifra sarebbe salita di ulteriori 90 miliardi su un PIL che invece
è sceso a 1.500 miliardi e dunque saremmo saliti al 18%.
Mafia, ‘ndrangheta, camorra:
la mappa dei clan
– Mafia,
‘ndrangheta, camorra: la nuova mappa dei clan. L’ultima relazione
semestrale della Dia, organo investigativo del Ministero dell’Interno, indica i
loro nomi e le loro zone di influenza.
La Dia fa sapere nel secondo semestre 2013 alcune collaborazioni tra
famiglie, anche di diversi mandamenti, hanno smussato qualche contrasto e
vecchio rancore. Mentre la necessità di proiettarsi fuori regione ha indotto
l’intera organizzazione a concorrere con altri gruppi criminali di ‘ndrangheta,
camorra o Sacra Corona Unita per trovare appoggi.
Il traffico di droga si conferma business in
crescita, anche in considerazione dei maggiori rischi legati all’attività
estorsiva, sempre molto praticata in provincia ma non più agevole, considerata
la maggiore propensione degli imprenditori a denunciare le vessazioni subite.
Dal traffico di droga agli affari sugli appalti. Dalle
estorsioni all'usura. Nel nostro Paese è ancora fitta la rete di famiglie e cosche
dedite alle peggiori attività illecite. Soprattutto al Sud. Ecco l'elenco dei
gruppi criminali attivi in Sicilia, Calabria, Campania, Puglia e Basilicata.
Comune per comune
Traffico
illecito di armi e droga, estorsioni ad imprenditori e
commercianti, riciclaggio e reinvestimento di denaro sporco, affari su
piccoli e grandi appalti pubblici. In diverse aree del nostro Paese la criminalità
organizzata continua ad esercitare un controllo più o meno
stringente del territorio, in particolare nelle regioni meridionali,
storicamente più colpite dal fenomeno. L’ultimo (ennesimo) allarme arriva dalla
relazione semestrale del ministero dell’Interno sull’attività
svolta e i risultati conseguiti dalla Dia, Direzione Investigativa Antimafia
(organo investigativo del Viminale). Il rapporto, diffuso la scorsa
settimana e relativo al primo semestre 2014, ci consegna ancora una
volta una mappa dettagliata delle centinaia di clan e famiglie
di mafia, ‘ndrangheta e camorra che operano in Sicilia,
Calabria, Campania, Puglia e Basilicata, e che
spesso estendono fino al Nord il loro raggio di azione. Ecco quali, provincia
per provincia.
PALERMO
– Nella provincia di Palermo – descrive la relazione del ministero dell’Interno
– Cosa Nostra è impegnata in una costante opera di consolidamento
della sua struttura, sia sotto il profilo militare che economico,
autofinanziandosi soprattutto attraverso la gestione di traffici illeciti,
il riciclaggio e il reinvestimento di denaro sporco. Sarebbe,
quella attuale, una fase di riorganizzazione legata all’arresto di alcuni
vecchi capi mandamento e capi famiglia e derivante dal fatto che non tutti i
nuovi reggenti dei gruppi criminali sembrano possedere l’autorevolezza
necessaria. Stando a quanto riporta la Dia, si registrano dunque nell’area
difficoltà a compattare le nuove leve e ad attuare le strategie criminali,
spesso rimesse in discussione dall’arresto o dalla scarcerazione di alcuni
boss. Il territorio provinciale risulta ora diviso in 14 mandamenti, 8 dei
quali in città, e 79 famiglie, di cui 34 in città.
Tra le
attività principali della mafia palermitana vengono segnalate, oltre al riciclaggio,
la frode nella distribuzione di carburanti e il traffico e la produzione
di stupefacenti. In particolare, il narcotraffico risulta essere
una delle maggiori fonti di finanziamento. L’approvvigionamento
verrebbe garantito dalla joint venture con associazioni criminali radicate in Calabria
e in Campania e dirette referenti dei fornitori. Non sono mancati,
infine, episodi di contiguità tra mafia e politica che hanno
determinato lo scioglimento di alcuni consigli comunali.
AGRIGENTO
– Cosa Nostra agrigentina, articolata su 7 mandamenti, ha
confermato un ruolo di rilievo nei confronti di altre consorterie criminali
nella provincia, riuscendo anche a mantenere un ruolo di rispetto nella
gerarchia mafiosa della regione. Come a Palermo, però, anche ad Agrigento
continua una ricerca di nuovi equilibri, che scaturisce dagli arresti degli
anni scorsi e dalle scarcerazioni di vecchi capi. L’organizzazione è
comunque verticistica e unitaria, ed interessata prevalentemente
al traffico di stupefacenti ed all’acquisizione di denaro pubblico, con
un forte predominio territoriale esercitato attraverso l’attività estorsiva.
Il pizzo viene imposto ad imprenditori attivi in svariati settori. I
proventi vengono poi reinvestiti, attraverso insospettabili prestanome,
in attività apparentemente legali, con lo scopo di sottrarre gli illeciti
guadagni all’azione di sequestro e confisca da parte dello Stato.
Si registrano anche intimidazioni nei confronti di amministratori
ed esponenti politici, ovvia dimostrazione un forte e costante interesse a condizionare
le decisioni di carattere politico-amministrativo.
TRAPANI
– La provincia di Trapani rimane feudo del super ricercato Matteo
Messina Denaro, considerato esponente di spicco dell’intera cupola di Cosa
Nostra. Nell’area nel primo semestre 2014 – dice il rapporto del Viminale – non
sono emersi mutamenti dell’organizzazione e della struttura mafiosa, che resta
articolata in 4 mandamenti e 17 famiglie. La Dia registra
un’operatività di sodalizi mafiosi della provincia caratterizzati da basso
profilo di esposizione, e interessati a perseguire una sorta di strategia
dell’inabissamento. Messina Denaro, capo del mandamento di Castelvetrano
può vantare una fitta rete di protezione e favoreggiamento, anche
attraverso interposizioni nella gestione di beni e affari. Gli interessi,
invece, sembrano focalizzati sul controllo delle attività imprenditoriali e
degli appalti pubblici, nel racket delle estorsioni, con relativi atti di
danneggiamento, nel traffico di droga e in attività di corruzione per la
penetrazione nella pubblica amministrazione.
CALTANISSETTA
– A Caltanissetta e provincia Cosa Nostra appare articolata in 4
mandamenti e risulta interessata soprattutto alle estorsione,
all’infiltrazione negli appalti pubblici (con pressioni esercitate sugli
amministratori) ed allo spaccio e traffico di droga esercitato non necessariamente
attraverso canali di rifornimento e personaggi propri, ma anche provenienti da
altri territori. Nell’area, a differenza della maggior parte delle province, si
registra una presenza significativa della Stidda, organizzazione mafiosa
ben distinta da Cosa Nostra, con influenza in particolare dei comprensori di Gela
e Niscemi. E si conferma, inoltre, la propensione della Stidda
all’accordo sistematico con le famiglie di Cosa Nostra attive nello stesso
territorio, per un’equa ripartizione dei proventi delle attività
illecite.
ENNA
– Accade qualcosa di diverso, invece, ad Enna, nella cui provincia, a
causa dell’assenza di una guida mafiosa costante e univoca, si vivono fasi
alterne di prevalenza della componente nissena o di quella etnea. La Dia,
ad esempio, nel periodo tra gennaio e giugno 2014 ha rilevato, nel comune di Catenanuova,
l’operatività, al fianco delle storiche famiglie di Cosa Nostra ennesi (ora
prive di personaggi dotati di carisma criminale) di un gruppo di diretta
emanazione del clan Cappello di Catania. Per quanto concerne le attività
illecite svolte, invece, anche quest’area si mostra in linea con il trend della
regione, con il traffico di droga diventato negli ultimi due anni la fonte
principale di reddito.
CATANIA
– A Catania i rapporti di forza tra sodalizi criminali sembrano non
essere mutati. La Dia riferisce di una convivenza pacifica tra le
famiglie e di equilibrio tra due schieramenti egemoni. Come a Trapani e in
altre province, anche in quest’area i gruppi mafiosi sono bene attenti a
mantenere ultimamente un basso profilo, privilegiando l’obiettivo a farsi
impresa. Accanto alle tradizionali attività illecite, come estorsioni, usura
e traffico di stupefacenti, l’organizzazione investe e ricicla, anche nei
circuiti finanziari. Per quanto riguarda la commercializzazione della
droga, essa risulta in mano prevalentemente al clan Cappello, che contende una
cospicua fetta di guadagni al clan rivale Santapaola. A Catania
il fenomeno dello spaccio sembra aver raggiunto un’elevatissima pervasività con
interi isolati, se non quartieri cittadini, che vivono di questo
tipo di attività illecita. Vista la perdurante crisi economica, i clan
non hanno particolari difficoltà ad arruolare nuova giovane manovalanza,
attratta da facili guadagni. Ovviamente nemmeno a Catania viene trascurato
l’affare dell’infiltrazione nella pubblica amministrazione e della
gestione di denaro pubblico attraverso l’aggiudicazione di appalti, subappalti,
forniture e servizi.
SIRACUSA
– Nella provincia di Siracusa l’organizzazione mafiosa continua ad
essere asservita alle logiche e alle strategie di Cosa Nostra catanese.
Anche qui, come ad Enna, mancano personalità carismatiche in grado di assumere
ruoli di comando. Si registra una situazione di convivenza
apparentemente pacifica tra i gruppi criminali attivi nell’area.
Principali attività sono quella estorsiva e il traffico di stupefacenti, che
sembra comunque essere limitato all’approvvigionamento dalla piazza
catanese.
RAGUSA
– Gli influssi dei sodalizi catanesi (e di quelli nisseni) si
fanno sentire anche nel territorio ragusano, specialmente nel versante
occidentale, a Vittoria, Scicli, Comiso. Ancora una volta
si registra, come a Caltanissetta, il peso della Stidda, alla quale è
affiliato il clan Dominante-Carbonaro. È legato a Cosa Nostra,
invece, il clan Piscopo. I capi mafiosi sembrano comunque dotati di scarso
spessore criminale, ma riescono tuttavia, tra una detenzione e l’altra, a
compattare intorno a sè estemporanei sodalizi per la gestione degli
affari illeciti.
MESSINA
– Nella provincia di Messina lo scenario mafioso è notoriamente
caratterizzato dalla presenza di gruppi delinquenziali privi dello spessore dei
sodalizi palermitani o catanesi. Si registra però l’influenza della ‘ndrangheta,
in ragione della vicinanza geografica alla Calabria.
A
dominare la fascia tirrenica è il clan dei Barcellonesi, molto
radicato e in grado di esercitare un forte condizionamento. Il sodalizio è
caratterizzato da una solida organizzazione con ripartizione delle competenze
tra famiglie e metodi operativi omologhi a quelli di Cosa Nostra palermitana,
con la quale rimane in rapporti nella gestione degli affari. Oltre alle
consuete attività estorsiva, di traffico di stupefacenti, e di gestione degli
appalti, nel primo semestre 2014 la Dia ha rilevato nella provincia un nuovo
interesse per lo sfruttamento della prostituzione. Sono comunque
attivi nel territorio anche soggetti che operano in autonomia avvalendosi dei
metodi mafiosi.
REGGIO
CALABRIA – Per quanto concerne la Calabria - spiega la relazione del
ministero – la ‘ndrangheta ha dimostrato nel primo semestre 2014 una
crescente capacità di infiltrarsi nella sfera politico-amministrativa
degli enti locali. La regione detiene un primato del numero di provvedimenti di
scioglimento di comuni per infiltrazione mafiosa, e le
‘ndrine hanno dimostrato capacità di penetrare nelle realtà
politico-amministrative anche lontano dal territorio di origine (lo
testimoniano le note recenti inchieste sulla mafia al Nord). A Reggio Calabria
la dislocazione delle cosche è caratterizzata dall’esistenza di un organismo
direttivo, denominato Provincia, e 3 mandamenti a competenza
areale: il mandamento Tirrenico, il mandamento Centro e il mandamento Ionico.
Per quanto riguarda il mandamento Tirrenico, il porto di Gioia Tauro
si conferma luogo di transito della cocaina proveniente dal Sud
America. Sulla base dei dati in possesso della Dia, i sequestri operati
nello scalo portuale hanno permesso di intercettare 980 kg di cocaina e circa
10 tonnellate di tabacchi di contrabbando. Nell’area di Gioia Tauro si segnala
l’influenza della cosca Molè, un tempo alleata con i Piromalli.
Mentre nel comprensorio di Rosarno e San Ferdinando è
attiva la cosca Pesce-Bellocco.
Sulla
città di Reggio Calabria, nel mandamento Centro, si segnala ancora la
posizione di supremazia delle storiche cosche cittadine De Stefano, Condello,
Libri e Tegano. A Sud del capoluogo opera, invece, la cosca
Ficara-Latella. Nei rioni Modena e Ciccarello si
registra l’attività del sodalizio Borghetto-Caridi-Zindato e
Rosmini. Nel quartiere di Santa Caterina, infine, è attiva la cosca Lo
Giudice.
Relativamente
al mandamento Ionico, la Dia segnala l’attività, nel comune di Monasterace,
ed in quelli limitrofi di Stilo, Riace, Caulonia e Camini,
della cosca Ruga, Metastasio, Leuzzi, legata alla cosca
Gallace, attiva a Guardavalle, in provincia di Catanzaro.
Nel
comune di Caulonia opera la cosca Vallelonga. A Gioiosa Jonica è
attiva la cosca Scali-Urbino, federata con i Costa-Curciarello
di Siderno.
CATANZARO
– Nessuna novità per quanto riguarda la mappatura della Dia relativa alla provincia
di Catanzaro. Unica novità di rilievo del primo semestre 2014 sarebbero
– dice il rapporto del Viminale - due operazioni che hanno disarticolato
le cosche Giampà e Torcasio.
COSENZA – Sono sostanzialmente immutate
rispetto al secondo semestre 2013 anche le zone di influenza dei gruppi
criminali ‘ndranghetisti della provincia di Cosenza.
CROTONE – Per quanto riguarda l’area di Crotone
la Dia sottolinea il maggior peso della famiglia Grande Aracri, la
stessa dall’operazione della scorsa settimana che ha condotto ad arresti di
politici e imprenditori in Emilia Romagna. In particolare la cosca avrebbe
assunto il controllo di tutte le attività illecite nella parte più a Nord della
regione.
VIBO
VALENTIA – Nella provincia di Vibo Valentia, infine, conserva un
ruolo egemone la cosca Mancuso di Limbadi, nonostante negli
ultimi anni sia stata colpita da diverse attività investigative. Relativamente
alle conflittualità tra sodalizi non sembrano essere sopiti i contrasti
tra i cosiddetti piscopiani della frazione Piscopo e i Patania
di Stefanaconi, sostenuti dai Mancuso.
NAPOLI
– Anche in Campania vengono sostanzialmente confermati assetti criminali
consolidati e di ricerca di nuovi equilibri tra clan colpiti da operazioni di
polizia. Ma – come sottolinea il ministro dell’Interno nella relazione
semestrale – novità potrebbero arrivare dall’area casertana. Il clan dei Casalesi,
infatti, sembra in difficoltà operativa alla luce della decisione del super
boss Antonio Iovine di collaborare con la giustizia. Il pentimento del
capo clan potrebbe avere ripercussioni sugli equilibri del sodalizio. Per quanto
concerne invece la redditività delle attività illecite, per la criminalità
organizzata campana quella più vantaggiosa è ancora rappresentata dal traffico
di stupefacenti. Si tratta del settore nel quale vengono operati i maggiori
investimenti per gli ingentissimi guadagni che ne derivano. Va
ricordato, in tal senso, quanto accaduto nell’area a Nord di
Napoli, centro nevralgico per l’approvvigionamento della droga, dove la fine
del predominio assoluto del clan Di Lauro negli anni scorsi ha generato
scontri tra gli altri gruppi che ne hanno in parte occupato lo spazio.
Nella zona
centrale del capoluogo campano rimane fitta la rete di clan camorristici
operanti. Nel rione Forcella, a causa di tensioni tra il clan
Mazzarella ed un gruppo discendente dello storico clan Giuliano,
intenzionato ad assumere il controllo dello spaccio di stupefacenti, si vive
una situazione di instabilità. Del gruppo criminale in ascesa farebbero
parte giovani delle famiglie Stolder-Ferraiuolo-Brunetti-Sibillo,
che potrebbero contare sull’appoggio del clan Rinaldi di San Giovanni
a Teduccio, che è attivo nella zona orientale della città ma sta estendendo
la sua influenza anche nel quartiere Mercato, alle Case Nuove, zona
storica del gruppo Caldarelli, a sua volta satellite del clan Mazzarella.
Nei quartieri Vasto e Arenaccia, nella zona Ferrovia e a Poggioreale,
intanto, continua l’egemonia incontrastata del clan Contini, dotato di
ottima capacità militare e politica di alleanze, come quella con il gruppo
Mallardo di Giugliano in Campania, i Licciardi di Secondigliano
e i Bidognetti della provincia di Caserta. I Contini sembrano aver
trovato un equilibrio con lo storico rivale clan Mazzarella. Nei quartieri
Spagnoli, invece, sono attivi i clan Mariano e Ricci,
quest’ultimo legato al gruppo D’Amico, operante nella zona orientale
della città, e due clan di recente formazione, Esposito e Saltalamacchia.
La Dia segnala che alcune sparatorie e intimidazioni sono sintomatici di
frizioni tra i gruppi Elia del Pallonetto a Santa Lucia, Lepre
del Cavone e Mariano, da una parte, ed Esposito e Saltalamacchia
dall’altra. Nella zona centrale di Napoli, inoltre, si segnala il ritorno di
esponenti delle famiglie Tolomelli e Vastarella, storicamente
legate ai Licciardi e feroci antagoniste del clan Misso. Famiglie che hanno l’ambizione
di riprendere il controllo di parte del quartiere Sanità, cercando
appoggi con i Contini. Il quartiere Sanità, infatti, dopo la disarticolazione
del clan Misso, è diventato teatro di accesa conflittualità per la perdita dell’egemonia
da parte degli storici gruppi camorristici. Ora si registra l’attività del clan
Lo Russo del quartiere Miano e del gruppo Savarese-Sequino,
in cerca di alleati e intenzionato ad accordi con le nuove generazioni della
famiglia Giuliano. A Poggioreale, intanto, la dissoluzione del clan
Sarno ha condotto ad uno scontro tra un gruppo di ex affiliati, ora legati
al sodalizio criminale Casella, ed al clan Cuccaro di Barra,
federato con la famiglia De Micco. A San Ferdinando, invece, nella zona
Chiaia, è attivo il clan Piccirillo, legato al gruppo Licciardi e
Strazzullo, e presente anche nella zona Posillipo, considerata a sua
volta territorio franco per il riciclaggio di clan della zona nord orientale
del capoluogo e di Napoli centro, in particolare dei gruppi Licciardi,
Mazzarella e Calone. Al Pallonetto a Santa Lucia, infine, è in corso una
lotta per il predominio tra famiglia Ricci dei Quartieri Spagnoli e gli Elia
di Santa Lucia.
Per
quanto riguarda la zona settentrionale di Napoli, nei quartieri Vomero
ed Arenella domina il clan Cimmino, controllando sia la zona Arenella-Conte
della Cerra sia la zona Rione Alto. Ma si registra
contemporaneamente anche la presenza dei Polverino di Marano di
Napoli, impegnati nel riciclaggio in attività commerciali. A Secondigliano
e Scampia, Rione Berlingieri, Miano, Piscinola e San
Pietro a Patierno, gli equilibri non sono stabili. Come afferma la
relazione del ministero dell’Interno, la geomorfologia appare fluida per la
rapidità con cui si creano rapporti di alleanza e forte antagonismo. Nei
suddetti quartieri l’attività di spaccio è molto intensa e redditizia. Si
segnala, dunque, la presenza in tutta l’area dei gruppi camorristici Amato-Pagano,
Di Lauro, Vanella-Grassi, Bocchetti, Licciardi,
Lo Russo e Abete-Abbinante-Aprea-Notturno.
L’area
orientale della città comprende i quartieri San Giovanni a Teduccio,
Ponticelli e Barra. A San Giovanni a Teduccio si contrappongono
lo storico clan Mazzarella, che conta sull’appoggio delle famiglie Formicola-Silenzio
e D’Amico ed il cartello composto dai gruppi Reale, Rinaldi
e Altamura. A Barra, invece, e nel rione Lotto Zero di
Ponticelli, dopo anni di egemonia del sodalizio Cuccaro-Aprea è
in atto un tentativo di conquista di spazio da parte del gruppo Amodio-Abrunzo,
formato da pregiudicati usciti dal suddetto clan e sostenuti dagli Abete-Notturno-Aprea
e De Micco, già legati ai Cuccaro. A Ponticelli è attivo il gruppo De
Micco, forte di una ampia disponibilità di armi e diventato referente per la
fornitura di stupefacenti di una gran parte dell’area orientale. Ai De Micco si
contrapporrebbe il clan D’Amico, formato da esponenti del dissolto clan
Sarno.
Per quanto
concerne, poi, l’area occidentale di Napoli si rileva un’elevata
frammentazione delinquenziale che ha determinato faide provocate dalla
necessità di evitare sconfinamenti da parte di gruppi rivali. Come riporta il
rapporto del Viminale, A Soccavo opera la famiglia Grimaldi,
legata ad esponenti della malavita di Pianura e del Rione Traiano.
L’antagonista sarebbe il gruppo Vigilia, formato da alcuni fuoriusciti
dal clan. A Fuorigrotta, intanto, opera il gruppo Zazo, al quale
si sarebbero aggiunti i pochi elementi liberi del clan Bianco, non più
attivo. Il gruppo Zazo è impegnato nel traffico di droga e nella contraffazione
e risulta legato alla famiglia Mazzarella. Nel Rione Traiano, invece,
altra zona dove è intenso lo spaccio di droga, si registra l’egemonia del clan
Puccinelli, favorito dall’assenza dalla scena dei suoi antagonisti, ovvero
i capi del contrapposto gruppo Leone-Cutolo, detenuti in
esecuzione di pesanti condanne. A Pianura sembra ridimensionato il clan
Lago, che ha ceduto spazio al gruppo Marfella. A Bagnoli, Agnano
e su parte della zona di Cavalleggeri d’Aosta permane, infine, la
presenza del clan D’Ausilio, anche se ridimensionato da arresti e
collaborazioni. Nella stessa area ha comunque acquistato spazio il gruppo scissionista
Esposito, originario di Secondigliano e legato alla famiglia Licciardi.
Nel versante
occidentale della provincia si registra l’egemonia dei Polverino
a Quarto. Mentre a Bacoli e Monte di Procida opera il clan
Pariante, dedito allo spaccio e legato agli Amato-Pagano di Secondigliano.
Per quanto concerne invece la zona settentrionale della provincia,
a Casavatore è attivo il gruppo Vanella-Grassi e il clan
Ferone. A Qualiano e Villaricca, invece, gruppi locali sono
interessati all’acquisizione di appalti pubblici, alle estorsioni, al
riciclaggio e al traffico di droga mediante importazione dall’estero di ingenti
quantitativi, ma d’intesa con altri clan. A Marano di Napoli persiste
l’egemonia del clan Polverino, presente anche a Quarto e Villaricca
e caratterizzato da una forte vocazione imprenditoriale, che si manifesta, ad
esempio, con l’interesse nell’edilizia residenziale e nelle attività
turistico-alberghiere. Il clan Mallardo, alleato con i Bidognetti e i
Contini, opera incontrastato a Giugliano in Campania. Afragola è
invece il comune di origine del clan Moccia, egemone incontrastato per
la gestione e il controllo di tutte le attività illecite anche a Casoria,
Caivano, Arzano, Cardito, Crispano, Frattamaggiore
e Frattaminore, e proiettato anche in altre regioni e all’estero. Ad Acerra
e dintorni si ritiene disarticolato il clan Crimaldi, così come i clan
De Sena e Di Falco-Di Fiore. Pertanto, nella vasta area tra i
comuni di Casalnuovo, San Felice a Cancello e Santa Maria a
Vico opererebbero gruppi criminali non aventi connotazione tipica dei clan
e dediti prevalentemente ad estorsioni, spaccio e rapine.
Nell’area
vesuviana e nolana si registra il controllo delle attività illecite
soprattutto da parte dei clan Cava, originario di Quindici, nell’Avellinese,
dei Fabbrocino di San Giuseppe Vesuviano e dei Moccia di Afragola,
che hanno assorbito altre compagini criminali locali facendole diventare
proprie strutture satellite. Si conferma la forte vocazione imprenditoriale del
clan Fabbrocino, le cui ingenti disponibilità economiche avrebbero contribuito
al rafforzamento del vincolo di omertà dei suoi consociati. Ma non solo. la
relazione del ministero descrive che le capacità imprenditoriali di molti
affiliati hanno consentito al gruppo camorristico di penetrare nel settore
dell’abbigliamento e del commercio di alimenti in alcune regioni del Centro e
del Nord del Paese, come Lombardia, Emilia Romagna, Umbria e Marche. Intanto, a
Pomigliano d’Arco, Castello di Cisterna, Brusciano (dove
opera il clan Ianuale, presente anche a Mariglianella), Marigliano,
Pollena Trocchia, San Sebastiano al Vesuvio, Somma Vesuviana
e Sant’Anastasia opera il clan Castaldo-Anastasio. Nella stessa
zona sono però attivi anche pregiudicati di riferimento del clan Mazzarella, insediatisi
nella zona di Marigliano. A Somma Vesuviana, intanto, si segnala
l’infiltrazione dei clan Cuccaro e Rinaldi di Barra attraverso pregiudicati
locali.
Infine,
la fascia costiera a Sud di Napoli, la provincia meridionale. A Portici
e San Sebastiano al Vesuvio il clan Vollaro detiene l’egemonia
assoluta delle estorsioni, del traffico di droga, del lotto clandestino e
dell’usura. Ad Ercolano, invece, si registra l’attività, in
contrapposizione, degli Ascione-Papale e dei Birra-Iacomino.
A San Giorgio a Cremano opera il clan Abate, con proiezioni in
Emilia Romagna. A Torre del Greco i clan Falanga e Di Gioia.
A Torre Annunziata sono attivi i Gionta. Il sodalizio Gallo-Limelli
Vangone è presente sia a Torre Annunziata che nei comuni di Boscoreale,
Boscotrecase e Trecase. A Castellammare e nei comuni
vicini, infine, agiscono i clan D’Alessandro e Cesarano.
CASERTA
– Come già detto, il clan dei Casalesi, che domina gli affari illeciti
nella provincia di Caserta, deve fare i conti con la collaborazione con
la giustizia del super boss Antonio Iovine. Il gruppo criminale sta
quindi vivendo una difficile fase di transizione già affrontata qualche anno
addietro, all’indomani della cattura dei un altro esponente al vertice del
sodalizio camorristico, Michele Zagaria, in manette nel 2011. Tuttavia,
non va dimenticato che i Casalesi sono già riusciti in passato a rigenerarsi
reclutando nuove leve da affiancare a vecchi sodali, nonostante siano stati
oggetto negli anni di un’efficace attività di contrasto. Dunque, il clan
casertano, sembra in questa fase intenzionato a rafforzare la propria presenza
nelle aree di influenza, invece che estendersi in altre zone della provincia,
zone in cui però si sta rafforzando la forza criminale delle organizzazioni non
federate nel cartello.
La
fazione Bidognetti a quanto pare ha ripreso a compiere estorsioni nei
comuni di Parete, Teverola e Castel Volturno. Il gruppo
Schiavone, invece, risulta sempre molto forte militarmente. Mentre il gruppo
Zagaria viene considerato pericoloso soprattutto per la capacità di
infiltrazione in diversi settori dell’economia, in particolare nella gestione
dei servizi pubblici e negli appalti (come ha dimostrato la recente operazione sulle gare per i lavori in un ospedale casertano). Nella provincia, oltre ai gruppi
federati ai Casalesi operano, nella zona di Marcianise, il clan
Belforte e il gruppo Piccolo. I due clan mantengono con i Casalesi
un rapporto di non belligeranza.
SALERNO
– Nella provincia di Salerno le organizzazioni camorristiche
sembrano caratterizzate da una struttura di tipo orizzontale, con diversi
centri decisionali e orientata prevalentemente al raggiungimento di obiettivi
immediati di finanziamento e non medio-lunghi. Nell’area si registra una disaggregazione
di vecchi cartelli criminali e la coagulazione di nuovi gruppi sia in città che
lontano dal capoluogo. Nel dettaglio, a Bracigliano e a Mercato San
Severino si registra la presenza del clan Graziano, originario di
Quindici, in provincia di Avellino. A Salerno città si conferma la
ripresa dell’egemonia del gruppo Panella-D’Agostino. Nell’agro
nocerino-sarnese, in seguito alle azioni di contrasto degli anni scorsi, lo
scenario delinquenziale appare in fase di assestamento. La gestione del
traffico e dello spaccio di droga avviene attraverso alleanze con i gruppi
dell’area napoletana, in particolare di Castellammare di Stabia e Torre
Annunziata. A Pagani è attivo il sodalizio Fezza-D’Auria.
A Nocera Inferiore e Nocera Superiore, invece, accanto allo
storico clan Mariniello, si registra l’operosità di gruppi formati da
giovani pregiudicati già legati a sodalizi del vicino comune di Pagani. È lo
stesso che avviene ad Angri. A Cava de’ Tirreni, oltre a soggetti
criminali già legati al clan Bisogno, operano pregiudicati che fanno
riferimento al gruppo Celentano. Infine, nella parte Sud della provincia,
nella Piana del Sele, risultano attivi gruppi criminali emergenti
dediti sia alle estorsioni che al traffico di stupefacenti.
BENEVENTO
– Situazione stabile in provincia di Benevento, dove si conferma
l’egemonia del gruppo camorristico Sperandeo, alleato con il clan
Pagnozzi originario di San Martino Valle Caudina, in provincia di Avellino,
ma presente anche a Montesarchio, Airola e paesi limitrofi. Il
clan Pagnozzi agisce, tra l’altro, in sinergia con il gruppo Saturnino-Bisesto
di Sant’Agata de’ Goti e con il sodalizio Iadanza-Panella
attivo a Montesarchio Bonea, Bucciano, Castelpoto, Campoli
del Monte Taburno, Tocco Caudio, Cautano e Forchia.
Anche qui gli interessi variano dal traffico di droga all’usura, dalle
estorsioni alle infiltrazioni nell’affare degli appalti pubblici.
AVELLINO – Nell’Avellinese viene
confermato il predominio del clan Cava di Quindici, storico
rivale dei Graziano, originario dello stesso comune. Al momento non
vengono registrati episodi di conflittualità tra i due gruppi camorristici, ma
la scarcerazione di qualche esponente di spicco dell’uno o dell’altro clan
potrebbe rompere gli attuali equilibri. I Cava negli ultimi anni hanno
approfittato dell’indebolimento del clan Russo di Nola, in provincia di
Napoli, per proiettarsi in un nuovo territorio attraverso gruppi satellite come
i clan Giugliano e Sangermano (quest’ultimo di San Paolo
Belsito, Napoli). Nel comune di Avellino, intanto, sembra riorganizzarsi la
famiglia Galderi, mentre sono ancora in carcere gli elementi di spicco del gruppo
Genovese .
BARI – Per quanto concerne la Puglia,
la Dia rileva che il fenomeno criminale, grazie all’azione di contrasto e alla
collaborazione con la giustizia di alcuni affiliati alla Sacra Corona Unita,
appare oggi non unitario, ma disgregato e disomogeneo. La regione, infatti è
dunque caratterizzata dalla presenza di una pluralità di gruppi mafiosi,
caratterizzati da continui mutamenti, spesso legati anche a delle faide. A Bari
e in provincia, ad esempio, si registrano tensioni legate alla
ridefinizione degli equilibri criminali e delle posizioni di vertice, che a
volte degenerano in scontri cruenti. A restare operative sono soprattutto
giovani e ambiziose leve, che risultano però nello stesso tempo anche inesperte
e pericolose. I quartieri maggiormente interessati alle faide sono
San Paolo (dove emergono contrasti tra il clan Montani-Telegrafo
e il gruppo Mercande-Diomede), San Girolamo (teatro di uno
scontro tra i Lorusso e i Campanale) e Libertà (dove hanno
luogo contrasti interni al clan Mercante). Situazioni invece stazionarie
si registrano nei quartieri di Carbonara e Ceglie del Campo (tra
i clan Di Cosola e Strisciuglio), nel Borgo Antico (tra
i Strisciuglio e i Capriati), nel quartiere Madonnella
(dove si registra la presenza del clan Di Cosimo-Rafaschieri), e,
infine, nel quartiere Japigia (dove operano i clan Parisi e Palermiti).
Le attività illecite più diffuse sembrano essere quelle del traffico e dello
spaccio di stupefacenti e delle estorsioni ai danni dei commercianti.
Per quanto
concerne la provincia di Bari, poi, la Dia segnala la
contrapposizione tra clan Conte-Cassano e Cipriano
nella città di Bitonto, il contrasto tra elementi del gruppo La Selva
e del gruppo Panarelli a Conversano, e, in ultimo, l’egemonia del
sodalizio Zonno a Toritto
BARLETTA-ANDRIA-TRANI
– La provincia di Barletta-Andria-Trani si caratterizza
dalle altre per la diffusione di una specifica attività criminale: le rapine
agli autotrasportatori, spesso realizzate su strade trafficate con
tecniche paramilitari che possono prevedere anche il sequestro lampo dei
conducenti dei tir. In ogni caso si segnala la presenza dei gruppi criminali Miccoli
e Gallone-Carbone a Trinitapoli e del sodalizio Pistillo-Pesce
ad Andria.
FOGGIA – A Foggia e provincia
le organizzazioni criminali sono state ridimensionate da numerose inchieste
giudiziarie e da severe condanne. Ma solo in parte sono stati fermati gli
episodi di sangue, visto che la forte crisi economica favorisce la
costituzione di un serbatoio nell’ambito della criminalità comune dal quale
attingere manovalanza. Nel rapporto del Viminale si segnala la presenza del
clan Sinesi-Francavilla in città, in contatto con la criminalità
organizzata di San Severo.
LECCE - I gruppi criminali della provincia
di Lecce erano un tempo legati alla Sacra Corona Unita. Ora, dopo
un’efficace azione di contrasto attuata negli anni, i sodalizi non sono più
organizzati in maniera verticistica, limitandosi ad operare in sinergia,
preferendo un profilo basso, una strategia di inabissamento. Si segnala comunque
la presenza in città del clan Rizzo, capeggiato da uno storico
boss della S.C.U. leccese. Il gruppo è egemone soprattutto nel traffico di
stupefacenti e nelle estorsioni. La maggiore influenza viene esercitata nel rione
Castromediano. In provincia controlla invece i territori dei comuni di Cavallino,
Lizanello, Melendugno, Merine, Vernole, Caprarica,
Calimera e Martano.
BRINDISI – Sembra statico il contesto
criminale anche nella provincia di Brindisi, che negli ultimi
anni ha subito un incisivo contrasto investigativo grazie alla
collaborazione con l’autorità giudiziaria della frangia brindisina e mesagnese
della Sacra Corona Unita. Nessuno dei fatti di sangue verificatisi
nell’area sembra comunque essere riconducibile a contrasti tra cosche.
Anche qui le principali attività illecite sono rappresentate da traffico di
stupefacenti ed estorsioni, quest’ultime esercitate perlopiù
attraverso pretese di piccole somme di denaro. Ma si registrano anche usura e
gestione degli apparecchi elettronici.
TARANTO – Gli assetti sono immutati anche a
Taranto e provincia, dove i gruppi criminali ricavano i maggiori
introiti dal traffico di droga, esercitato in sinergia con pregiudicati
calabresi o baresi.
Molto
diffusa l’attività estorsiva ai danni ai danni di imprenditori,
commercianti e artigiani, spesso vittima di attentati dinamitardi o incendiari.
POTENZA E
MATERA – In Basilicata
viene rilevata la presenza residuale di gruppi criminali che, dopo essere stati
disarticolati nel tempo dalle censure penali, non manifestano segnali palesi di
vitalità. Questa situazione agevola l’attività di gruppi omologhi provenienti
dalle regioni limitrofe. L’attività prevalente del traffico di droga
riguarda soprattutto l’area tirrenica, confinante con Calabria e Campania.
A Potenza si registra la presenza dei clan Cassotta, Di Muro,
Martucci, Rivezzi, Martorano e Stefanutti. nella
provincia di Matera, invece, si segnala nel primo semestre 2014 la
presenza dei clan Scarcia, Mitidieri-Lopatriello e Zito-D’Elia.
^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^
NOTA – La relazione del Ministero dell’Interno al
Parlamento sull’operato e i risultati conseguiti dalla Dia nel primo semestre
2014 non riguarda solamente famiglie e clan della criminalità
organizzata siciliana, calabrese, campana, pugliese e lucana,
ma anche le organizzazioni criminali straniere che operano sul
territorio nazionale (quella albanese, nordafricana, centrafricana,
sub sahariana, cinese, sudamericana, romena, russa).
Non mancano, inoltre, informazioni relative alle proiezioni extraregionali
ed internazionali delle cosche italiane.
IL RICICLAGGIO
CRIMINALE
Dopo la droga e le armi, il
traffico illecito di opere d’arte è il terzo mercato più lucroso per le
organizzazioni criminali .
Un mercato
da circa 78 milioni di euro, che nel 2012 si è impennato del 39% rispetto al
2011. Dopo armi e droga il traffico illecito di opere d’arte è stimato come il
terzo mercato criminale più lucroso, con profitti globali stimati intorno agli
8 miliardi di euro. «L’investimento o il reinvestimento di capitali illeciti in
arte è uno dei più sicuri perché non perde valore ed è semplice da sottrarre
all’aggressione patrimoniale Una catena criminale che va dal furto, alla
falsificazione, fino all’opera dei cosiddetti “tombaroli”, cioè coloro che
effettuano abusivamente scavi archeologici. Le opere rubate o falsificate
vengono immesse sul mercato clandestino , anche utilizzando il web .
Un business per le organizzazioni
come ’ndrangheta, cosa nostra e camorra, oltre ad almeno altre tre o quattro
organizzazioni criminali nel mondo. Lo stesso ex procuratore nazionale
Antimafia Pietro Grasso non ha esitato nel dire che il «traffico di opere
d’arte è tra i principali guadagni delle mafie». Soldi sporchi a spasso
per il globo, che transitano per gli immancabili paradisi fiscali e difficili
da stanare .
Investire in arte per le mafie, chiaramente
ben consigliate da esperti del settore, è conveniente e sicuro: prima di tutto
le pene previste nel caso in cui si venisse scoperte sono irrisorie per chi è
abituato a ben altri pericoli del codice penale.
Riguardo a
tutto ciò la legislazione è insufficiente» Pene troppo leggere, che non spaventano chi
mercanteggia illegalmente opere d’arte, e una legislazione che rende non
facile l’aggressione patrimoniale e le indagini. Secondo gli investigatori i
limiti dell’attuale codice dei Beni Culturali non permettono di svolgere
appieno le attività d’indagine, anche perché, spiegano, ormai quelli che operano
nell’illegalità con le opere d’arte utilizza sistemi ben sofisticati .
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